In questo cinema celestiale non c’era differenza fra personaggio, attore e spettatore,
eravamo tutti parte della stessa storia di vita,
tutti nello stesso Viaggio a Tokyo,
la nostra vita trascinata dalle stesse forze.
Queste sono parole di Wim Wenders che ricorda la sua prima visione, nei primi anni settanta, del capolavoro del 1953 di Yasujirō Ozu. Parole che fotografano perfettamente anche il nostro stato d’animo subito dopo aver visto questo Perfect Days nel gennaio del 2024. Usciti dalla sala ma ancora dentro la ricerca del Komorebi, ossia il momento decisivo nel quale la luce filtra tra le foglie di un albero, illuminando per un singolo frame l’utopia di un cinema umanista che riesca a «far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza utilizzare avvenimenti particolari», come scriveva lo stesso Ozu. Fermiamoci qui.
Il film nasce dall’iniziativa dell’amministrazione di Shibuya – uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo – che affida a Wim Wenders un documentario sul “Tokyo Toilet Project”, ossia la creazione di diciassette bagni pubblici di alta qualità igienica dislocati nel quartiere e disegnati da celebri architetti internazionali. Wenders decide ben presto di abbandonare l’idea del documentario e abbracciare quella di un film che potesse fondere le istanze legate al territorio con l’archivio di forme del cinema giapponese. Quindi pensando a immagini dialettiche che potessero unire il passato (del cinema) con il presente (delle sue inquadrature). Lo spunto narrativo diventa una naturale conseguenza: il film pedina i giorni perfetti di Hirayama (Kōji Yakusho, il magnifico interprete di tanti film di Kiyoshi Kurosawa, premiato come Miglior attore a Cannes), ossia un addetto alla pulizia dei bagni pubblici di Tokyo che vive in un piccolo seminterrato, ama la musica, la letteratura, le piante e soprattutto osservare e fotografare le cose in silenzio. La sua vita fluisce nelle inquadrature e non c’è più differenza fra personaggio, attore e spettatore.
La coalescenza tra la spazialità del cinema di Ozu (i piccoli gesti quotidiani e i luoghi che acquistano un’autonomia che immediatamente non possiedono, come scrive Deleuze) e i segni del cinema di Wenders (i bagni pubblici inquadrati come installazioni che assorbono l’iperrealismo dell’amato Edward Hopper e i colori accesi che ricordano i Kino flo dell’amico Robby Müller) crea un film-esperienza di fortissima densità iconica. E, nel 2024, diventa un atto politico riportare l’immagine a questa densità. I gesti armonici e rituali, la scelta di prendersi cura degli oggetti, delle piante, delle persone, quindi del bene comune, riconfigurano quella lotta per estrarre attimi di purezza dal caos impuro dei segni metropolitani (vengono in mente le parole di Alain Badiou sul cinema come situazione filosofica) che il giovane Wenders cercava già in Tokyo-Ga (1985). Sì, perché l’occhio di Wenders abbraccia con amore il rigore di Ozu per poi allontanarsene con pudore un attimo dopo, riattraversando la città sulle note dei Velvet Underground, The Animals o Otis Redding e facendo esplodere il cinema come linguaggio transnazionale di emozioni e memorie condivise. Ossia il suo cinema. Quello di un eterno figlio delle vague europee, che, come lo sguardo fanciullo di Alice nelle città (1974), riarticola ancora la lezione dei maestri con una sensibilità autoriflessiva e sempre contemporanea. Del resto, per Wenders le immagini sono sempre state un falso movimento necessario per dar forma a dimensioni interiori colte nel corso del tempo (proprio come nell’ultimo, bellissimo, Submergence del 2017).
La vita di Hirayama – a proposito, questo è lo stesso nome che Chishû Ryû ha ne Il gusto del Sakè – fluisce ciclicamente in un’apparente monotonia e isolamento, ma in realtà intesse con noi spettatori un discorso pieno di scarti, interstizi, interruzioni, ripartenze, altalene emotive e nuove consapevolezze. Assistiamo così a frammenti di un discorso di vita che cogliamo dal fuoricampo e raccordiamo alla nostra esperienza, in un sublime sincretismo dell’anima che fonde una frase di William Faulkner alla scoperta di Patricia Highsmith, i Pale Blue Eyes dei Velvet Underground alla Brown Eyed Girl di Van Morrison, il suono auratico di una musicassetta con la voce di Patty Smith che commuove una ventenne al Perfect Day di Lou Reed che si conquista attimi di luce nel buio di un seminterrato. E ancora, il tempo dell’esposizione di una pellicola fotografica che coglie il raggio di sole tra le foglie montato con le immagini oniriche filmate come sogni impressionisti epsteniani. Infine, un breve video digitale della nipote Niko che riprende lo zio Hirayama montato con una fugace fotografia scattata da Hirayama alla stessa Niko. Il falso raccordo concepito ancora come incontro d’anime e di supporti dell’immagine, di forme cinematografiche e di tempi diversi. Wenders si muove tra l’armonia delle inquadrature-tatami di Ozu e il montaggio dialettico di Godard, ma con la limpidezza di intenti di chi ormai non ha più nulla da dimostrare ma ha ancora tanto da dire.
È un sublime film sull’adesso questo Perfect Days. Perché “un’altra volta è un’altra volta, ma adesso è adesso”, come dice Hirayama alla giovane Niko. Un film che non celebra l’armonia come monumento da contemplare, bensì la fa balenare come documento di una scelta faticosa da salvaguardare. Il gesto ciclico e metafisico della pulizia dei bagni non viene mai scontornato dal tutto, non nega mai il mondo, perché è nello sguardo incuriosito dalla vita di Hirayama che sentiamo premere dal fuori campo tutte le sue cicatrici interiori e tutte le crepe improvvise che si ha il coraggio di suturare riportandole al giorno perfetto del cinema. “Ci sono tanti mondi su questo mondo”, dice Hirayama. Ci sono interi mondi dietro al meraviglioso abbraccio a una sorella lontana o al piccolo regalo a una nipote vicina. Mondi paralleli che uniscono l’aiuto a un bambino in cerca della madre e i consigli a un giovane collega in cerca di futuro. Strutture narrative potenziali che comprendiamo benissimo dal fuori campo, perché già presenti nel primo piano di Hirayama che guarda con affetto le cose e le persone e poi alza gli occhi al cielo. Perfect Days è un film di sussurri e di ellissi, ma anche di improvvisi scintillii rivelatori (l’effetto tsura akari, la luce che illumina il volto nel Teatro Kabuki) e di occhi chiusi che li universalizzano (Cerrar los ojos, appunto, in rima con un altro magnifico film presentato nell’ultima edizione di Cannes, quello di Victor Erice). Proprio perché “due ombre che si sovrappongono non saranno mai più scure”. Insomma, per Wim Wenders dare ancora peso alle immagini significa renderle cariche di affetti. E questo Perfect Days, in ultima istanza, trova un miracoloso raccordo con l’origine visibile dei nostri affetti.
P.s. «Se la sua visione del cinema un tempo può essere stata paradisiaca, a guardarla oggi, è solo un’utopia». Ancora le parole scritte da Wenders su Ozu… ancora il nostro rileggerle. Pensando a Wenders.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.
Y. Ozu, Scritti sul cinema, a cura di F. Picollo, H. Yagi, Donzelli, Roma 2016.
W. Wenders, I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti, a cura di A. Reschke, Contrasto, Roma 2017.
Perfect Days. Regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders, Takuma Takasaki; fotografia: Franz Lustig; montaggio: Franz Lustig; interpreti: Kōji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada; produzione: Master Mind; distribuzione: Lucky Red; origine: Giappone, Germania; durata: 123′; anno: 2023.