I «disegni senza disegno» (Alberti, Bodart 2022, p. 17) – come li chiamano Francesca Alberti e Diane H. Bodart, le curatrici della mostra appena chiusa a Villa Medici a Roma, Scarabocchio. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly (Éditions Beaux Arts de Paris) – sono quei segni che dismettono la propria stessa natura semiotica. Cioè dei segni che non intendono più significare nulla (segno: aliquid stat pro aliquo), segni che non vogliono più essere, appunto, delle entità rappresentative: al contrario si tratta di segni che vogliono solo mostrare il loro essere nient’altro che tracciati grafici, graffi, macchie. Un disegno senza disegno non è nemmeno una pura forma, ché senza un contenuto da rappresentare non c’è più nemmeno una corrispondente forma (senza il cosiddetto “veicolo” segnico viene a mancare anche il contenuto “veicolato”). Un disegno senza disegno è affine al gesto di destituzione in cui il segno non pretende più di affermare la propria potenza significante, ma si offre come una sorta di pura presenza materica. Un gesto che è allo stesso tempo intenzionale ma anche inintenzionale, perché il “disegnatore senza disegno” è qualcuno che sa disegnare, e che tuttavia mette fra parentesi la propria abilità per dismettere l’ingombrante, e sempre un po’ ridicola, posizione dell’artista.

Alberti e Bodart riportano, al riguardo, un passo di Vasari in cui viene descritta questa peculiare condizione:

Anche i più grandi artisti potevano divertirsi a mal disegnare, come ci racconta Giorgio Vasari a proposito di Michelangelo: “Nella sua gioventù, sendo con gli amici sua pittori, giucorno una cena a chi faceva una figura che non havessi niente di disegno, chi fussi goffa, simile a que’ fantocci che fanno coloro che non sanno, & imbrattano le mura. Qui, [Michelangelo] si valse della memoria, perché ricordatosi aver visto in un muro una di queste gofferie, la fece come se l’avessi havuta dinanzi di tutto punto, & superò tutti que’ pittori: cosa dificile in un huomo tanto pieno di disegno, avvezzo a cose scelte, che ne potessi uscir netto” (ivi, p. 18).

Vasari mette in evidenza che il disegno senza disegno non è quello ancora grossolano e goffo di chi non sa disegnare. Al contrario, occorre la massima maestria grafica per disimparare a disegnare, cioè disimparare a voler rappresentare qualcosa attraverso un segno grafico. Il “disegno senza disegno” è l’ultima, estrema e più difficile tappa del disegno.

In effetti ogni segno, prima ancora di significare qualcosa, cioè prima ancora di riferirsi ad un determinato contenuto, è esso stesso la pretesa di poter rappresentare, e quindi significare, qualcosa. Nel segno, allora, è implicita la posizione di chi ritiene che c’è qualcosa da dire del mondo, cioè la presuntuosa posizione di chi ritiene che al mondo manchi ancora qualcosa, qualcosa che vi dev’essere aggiunto, il suo senso. Un senso che solo un segno può rappresentare. Non bisogna mai dimenticare che gli animali non umani non hanno affatto questa pretesa: per loro il mondo è già da sempre a posto com’è, non ha bisogno di alcuna aggiunta semiotica, di alcun senso. Al contrario, il tipico gesto umano è quello di chi ritiene che il mondo abbia bisogno di essere completato da un segno. Si pensi al riflesso semiotico di chi, di fronte ad uno straordinario scenario naturale, non riesce a trattenersi, e non può non dire “che bello”.

Nella stessa situazione un animale non umano non solo non dice nulla, ma soprattutto non prova alcun bisogno di dire nulla. Un animale, si potrebbe sostenere, è un animale – cioè un vivente sempre a casa nel mondo – proprio perché non ha alcun bisogno di commentare il mondo. Al contrario è umano quel vivente che non si contenta mai del mondo com’è. E così, quando l’artista – cioè chi sa disegnare – rinuncia alla sua stessa potenza di disegnare in fondo accetta di stare al mondo come un animale o un albero. In effetti quando una lumaca lascia per terra una scia di bava appiccicosa non sta disegnando qualcosa; quella scia è il suo modo di essere grata al mondo. Così il disegnatore che lascia andare il disegno per seguire le ondulazioni della matita in fondo, come la lumaca, non ha più nulla da raffigurare e rappresentare. L’artista si lascia andare alla musica del mondo.

In effetti l’elemento forse più evidente di questa mostra è l’intrinseca musicalità, o forse meglio ancora sonorità, del “disegno senza disegno”. Lo scarabocchio, cioè, è quanto c’è di più simile, nel campo visivo, al movimento delle onde sonore, che tanto più sono musicali quanto meno hanno una direzione determinata e arrivano dovunque (anche in quel buio che la luce non riesce a trafiggere). Lo scarabocchio, cioè, mette in mostra per gli occhi – cioè a quel senso della visione che spesso è anche il più ottuso e conservatore – l’elemento mobile e non gerarchico del mondo. Si prenda il caso degli scratch films dell’artista neozelandese Len Lye. Come scrive Philippe-Alain Michaud, nel capitolo “Scarabocchio su pellicola”:

Negli scratch films, il mezzo cinematografico è ridotto ai suoi elementi essenziali di luce e buio. Graffiando il lato emulsionato della pellicola in modo che il fascio di luce del proiettore passi attraverso la celluloide, Len Lye cerca di evocare fenomeni naturali, come i fulmini, o di tradurre il movimento del suo corpo sulla pellicola: è affascinato da queste sensazioni di profonda affinità, e sviluppa delle regole per assegnare un particolare tipo di movimento a una particolare zona del corpo. Osservando il moto di un’onda, immagina un movimento simile nella sua spalla. Vedendo un gatto stirare i muscoli della schiena, cerca di trasferire quella sensazione all’arco del piede. O per ricordare il beccheggio e il rollio sul ponte di una nave, contrae i muscoli dello stomaco (Michaud 2022, pp. 248-250).

Lo scarabocchio non significa nulla, lo scarabocchio risuona con il mondo, con il movimento del mondo. Per questa ragione quello dello scarabocchio è gesto sostanzialmente umile. Come scrivono le curatrici nell’Introduzione al capitolo Il gioco del disegno:

Negli anni in cui diede inizio all’enorme affresco della volta della Cappella Sistina Michelangelo accompagnò il sonetto in stile bernesco indirizzato al suo amico Giovanni da Pistoia in cui descrive, non senza ironia, le deformazioni fisiche causate dai disagi di quell’immane compito, con un disegno che lo mostra in questa scomoda situazione; con una linea estremamente abbreviata, si raffigura in piedi nell’atto di dipingere, la testa alzata e il braccio teso, una figura sul soffitto non più dettagliata di un ectoplasma dai peli irti. La corrispondenza tra testo e immagine invita a interrogare il significato di tale accostamento. Con uno scarabocchio infantile in veste di immagine del Padre Eterno, Michelangelo esorcizza non solo con ironia l’ansia del risultato finale della propria opera, ma fa anche paradossalmente prova di umiltà, minimizzando la sua impresa umana di fronte alla grandezza della creazione divina che sta dipingendo sulla volta (Alberti, Bodard 2022, pp. 104-105).

Umiltà, e ironia, forse soprattutto autoironia (per questo lo scarabocchio è faccenda da vecchiaia, se non di anni di spirito). Perché lo scarabocchio destituisce, toglie importanza, avvicina all’infanzia (ma anche, appunto, al tremolio della vecchiaia). Lo scarabocchio è il divenire-bambino dell’artista, ma senza dimenticare che solo chi sappia disegnare può imparare a dimenticare come si disegna. La posta in gioco non è più il gesto sovrano dell’artista che “crea”– come si dice – un mondo, il suo mondo. Al contrario, nello scarabocchio l’artista smette di essere un genio e si scopre umano, terreno, anzi meno che umano, come la lumaca che inintenzionalmente “disegna” con la sua bava. Nello scarabocchio quell’umano sempre troppo ingombrante (l’Antropocene comincia con il desiderio di aggiungere senso al mondo, cioè con il desiderio di raffigurarlo, perché evidentemente il reale non basta più) fa un passo indietro, e trasforma l’arrogante gesto semiotico in un movimento semplice, giocoso, infantile. Umile, appunto. Nello scarabocchio, come scrive Hans Bellmer a proposito delle incursioni inconsce nelle immagini, «il contributo dell’individuo […] si riduce a zero» (Bellmer 2001, p. 74). Nello scarabocchio, propriamente, non si rappresenta più nulla; anche lo scarabocchio che ha i contorni di una caricatura in realtà offre allo sguardo non un contenuto determinato, ma appunto un movimento, una sonorità, un divenire-linea. Lo scarabocchio restituisce il segno al mondo, lo sguardo all’irrappresentabilità del mondo; oppure, per converso, nello scarabocchio il mondo si fa linea. Quindi l’artista si fa mondo. Non c’è più arte, non c’è più segno. C’è solo la vibrazione del mondo.

Riferimenti bibliografici
F. Alberti, D.H. Bodart, a cura di, Scarabocchio/Gribouillage. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly, Beaux-Arts de Paris éditions, Roma, Parigi 2022.
H. Bellmer, Anatomia dell’immagine, Adelphi, Milano 2001.

*I crediti per le immagini sono di F. Alberti, D.H. Bodart (dir.), Scarabocchio/Gribouillage. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly, catalogo della mostra, Roma, Villa Medici, Parigi, Beaux-Arts de Paris éditions, 2022, 400 pagine, edizione bilingue: francese e italiano. 

Scarabocchio. Da Leonardo da Vinci a Cy Twombly a cura di Francesca Alberti e Diane H. Bodart, 3 marzo 2022–22 maggio 2022, Villa Medici.

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