Il nero dello schermo viene inondato da spruzzi di colore, iridescenze, flussi sanguigni, chiazze bianche, macule striate che si spandono, si deformano, si raggrumano, si diluiscono come sulla tela di un quadro “action painting” o in un film sperimentale di Stan Brakhage. È l’immagine “astratta” che fa da incipit a Santa Lucia esordio di un regista trentenne di gran talento, Marco Chiappetta, prodotto da Angelo Curti per Teatri Uniti (con Riverstudio e Audioimage). Si tratta di un film intimo e misterioso, pervaso dal sentimento di una “nostalgia” del ritorno, dallo struggimento del flusso di memoria, ma soprattutto interamente giocato sulla scommessa di adottare, e insieme di esplicitare, l’impossibile punto di vista di un cieco, anche nel senso che Jacques Derrida in Memorie di cieco conferisce al termine francese point de vue, cioè letteralmente “niente vista”. Infatti quell’incipit segna da subito un gesto di regia: entrare con la macchina da presa negli “occhi di dentro” del protagonista, un uomo che da quarant’anni ha lasciato Napoli per Buenos Aires dove si è affermato come scrittore e un poco alla volta ha perso la vista (personaggio che assume un chiaro rimando allo “scrittore cieco” per eccellenza della nostra modernità: Jorge Luis Borges).

Le immagini astratte dell’inizio pongono lo spettatore all’interno di una percezione visiva alterata che costituirà per tutto l’arco del film l’essenziale ambiguità di quello che vediamo sullo schermo. Si tratta di qualcosa di più e di diverso da una semplice soggettiva (anche se la forma del movimento in soggettiva viene adottata in molte sequenze) dal momento che è lo sguardo interno, mentale, di un non vedente ciò che paradossalmente viene alla vista. Roberto, lo scrittore ormai anziano (cui Renato Carpentieri conferisce una strepitosa forza, nella postura del corpo, nei movimenti incerti e nelle immobilità attonite, nelle impercettibili vibrazioni del volto, negli occhi persi nel vuoto e rivolti verso l’alto, quando si toglie gli occhiali neri) viene informato da una telefonata della morte di sua madre e decide di partire per Napoli, di farvi ritorno dopo la lunghissima assenza, dopo una partenza motivata dalla volontà di lasciarsi alle spalle qualcosa che vuole dimenticare, che capiremo essere un grande amore. In Argentina si è sposato e ha due figlie, ma decide di tornare a Napoli da solo, e alla moglie che gli chiede se non ha paura, risponde: “Paura di che? Non posso aver paura della mia casa”.  Il ritorno a casa è il ritorno a quel quartiere dove lo scrittore è cresciuto, quella Santa Lucia affacciata sulla baia di Napoli, da cui un tempo le navi degli emigranti salpavano per varcare l’oceano, quella Santa Lucia in cui si inscrive il nome della santa protettrice della vista.

Il ritorno è il riemergere “dietro gli occhi” dei luoghi memoriali, quelli dell’infanzia, e di un volto e un corpo di donna, la bellissima Carmen, di cui Roberto fu disperatamente innamorato, e che partendo ha voluto dimenticare. Ad accogliere al suo arrivo lo scrittore è la sagoma sfocata di un uomo che lo chiama per nome e che si dirige verso la macchina da presa dalla profondità di campo venendo a fuoco. Le mani di Roberto entrano in campo tastando il volto di chi gli sta di fronte per riconoscerlo al tatto, come fanno i ciechi. Il volto dell’uomo improvvisamente diventa quello di un ragazzo. Gli occhi della memoria di Roberto gli restituiscono la giovinezza mentre in tal modo riconoscono in lui il fratello così come lo aveva visto l’ultima volta quarant’anni prima. È il fratello maggiore, si chiama Lorenzo (un Andrea Renzi che alterna spavalderia e tenerezza tratteggiando un personaggio che vive come “di rimbalzo” lungo i passi dei ricordi su cui accompagna il fratello cieco), eppure sembra più giovane: è il primo tratto di una strategia su cui è costruita tutta la catena di visioni e apparizioni del film. Una strategia che ha a che fare con l’indecidibilità di quello che noi spettatori stiamo vedendo attraverso la vista interiore di Roberto. L’abilità della regia sta tutta nel mantenere in un equilibrio incerto, eppure intrigante, la verità o la plausibilità di ciò che vediamo. La scelta registica rinuncia agli stacchi di montaggio per passare dal piano presente a quello passato.

Lo statuto del “flashback” viene completamente sovvertito: così la memoria di Roberto entra nel campo visivo senza soluzione di continuità. Sono i movimenti di macchina in carrello oppure in panoramica a rendere compresenti i ricordi che assalgono lo scrittore. Ne risulta un dato fantasmatico che investe di continuo, come trasportato da un vento silenzioso, le immagini, le situazioni, i dialoghi, rafforzato dal paesaggio urbano di una Napoli vuota, nuvolosa, opalescente, labirintica. Una spettralità che non ha nulla di spaventoso, ma piuttosto l’inquieta leggerezza metafisica dei racconti fantastici latinoamericani: oltre a Borges il realismo magico di Cortazar o di Bioy Casares o di Garcia Marquez (espressamente citato in una scena del film). Il passato e il presente coesistono e si intersecano, ma c’è di più: mentre il dialogo tra i due fratelli ci appare come un presente, avvertiamo oscuramente che anche in questo piano apparentemente presente c’è qualcosa di obliquo, che sfugge allo scorrere dialogico del tempo facendolo slittare e assorbendolo in un passato. Il mistero insiste in quello strano apparire più giovane di Lorenzo rispetto a Roberto. Il film si rivela mano a mano essere un film di fantasmi, di esseri scomparsi che riprendono vita tramite una vista ulteriore, una visione interna che si materializza. In questo senso Santa Lucia funziona anche come metafora del cinema, che è la macchina della memoria atta a dare corpo e parola al passato, ai fantasmi. Così il film si configura insieme come una reverie e una flanerie, entrambe labirintiche.

A un certo punto, guardando dall’alto della terrazza di San Martino il groviglio inestricabile di Napoli, Roberto racconta al fratello la trama di un suo romanzo, dove si immagina una città costruita come un labirinto, con vicoli e strade tutte uguali e milioni di scale che non vanno da nessuna parte. Nessuno ha mai pensato di uscire da questo labirinto, nessuno ci ha mai provato, tranne un bambino che legge in un libro che esiste il mare. Parte per cercarlo ma più cerca di uscire dal labirinto e più ne resta prigioniero, gli anni passano come specchi infiniti, uguali a se stessi, finché non vede più niente di niente: era partito per vedere il mare e si ritrova nel paese del silenzio e dell’oscurità. Posto al centro del film questo racconto ne costituisce una sorta di riflesso, come un aleph entro cui si compendiano e sovrappongono tutte le immagini passate, presenti e future della storia cui stiamo assistendo.

Durante il racconto di Roberto che avviene fuoricampo vediamo simultaneamente il bambino e il giovane che fu lo scrittore, li vediamo apparire lungo le scale a perpendicolo che squarciano i vicoli di Napoli: Roberto-bambino seduto sui gradini a leggere L’isola del tesoro, Roberto-giovane che si inerpica e discende su e giù per le scalinate. In un altro momento Roberto è in bagno a lavarsi le mani e vede riflesso nello specchio il sè stesso giovane con cui intrattiene un dialogo significativo: “Alla fine sei tornato? Ti sei ricordato di mamma solo quando è morta” “Sei tu che l’hai abbandonata 40 anni fa, sei fuggito!” “Ti sbagli io sono sempre rimasto qua. Sei tu che sei andato in Argentina. E hai dimenticato tutto” “No, non ho dimenticato niente. È questa la mia punizione”. In un altro momento Lorenzo chiede al fratello: “Adesso che non ci vedi più, quando dormi sogni lo stesso?”. E ancora Roberto si sente dire: “Tu non sei mai uscito da Santa Lucia”. Sono tutti segnali che rendono le immagini che vediamo in un certo senso incollocabili se non nella mente sognante e rammemorante di Roberto.

C’è un livello allora ambiguamente oggettivo in cui le inquadrature accompagnano il deambulare dei due fratelli per la città enigmaticamente vuota, dove il presente è come messo in parentesi, sospeso, mentre la vita trascorsa sopravviene imbricandosi nelle stesse inquadrature sotto forma di incarnazione del passato. La presentificazione del passato avviene spesso con una insistenza formale sullo sguardo in macchina, ma anche qui in modo indecidibile: non si sa chi sta guardando chi e soprattutto da quale punto del tempo e dello spazio. Tale punto sembra essere un “punto cieco” dello sguardo, un punto congetturale. Tutto avviene come se la camera fosse posta nella fibra percettiva della mente dello scrittore e si inscrivesse in un suo sogno. Forse Roberto non è mai tornato a Napoli, o forse non se ne è mai allontanato, Forse i due fratelli sono l’uno il fantasma dell’altro.

I morbidi movimenti di steadycam lungo i corridoi della casa la rivelano ancora popolata delle presenze d’infanzia. La madre sul letto di morte, accanto a cui Roberto si sdraia, è ancora giovane così come lo scrittore la ricorda; Lorenzo ragazzo sta ancora suonando la sua chitarra; i due fratelli bambini duellano ancora nel corridoio con le spade di legno. Ossessivamente ancora ritorna l’amata Carmen, ora bambina e ora ragazza, avanzando verso Roberto, attirandolo a sé, ponendogli delicatamente sugli occhi le sue mani, come una carezza. La madre può dire a Roberto: “Ti ho lasciato che eri un ragazzo e ti ritrovo che sei più vecchio di me”, e può ancora, sussurrandogli “chiudi gli occhi e apri le mani”, regalargli l’amuleto dell’“occhio di Santa Lucia”, una pietruzza che viene dal fondo del mare e che protegge la vista. Il rapporto tra i due fratelli e il loro ritrovarsi conferisce al film un ulteriore livello: nell’atteggiamento scanzonato, disincantato e strafottente di Lorenzo e nell’ombrosità di Roberto c’è come un sottile nucleo segreto, un non-detto, qualcosa che, in modo evanescente, racchiude un dolore, un trauma, una ferita.

Verso la fine del film viene suggerito dall’immagine fugace di un incidente come questo trauma abbia a che fare con la morte, che letteralmente riemerge dal mare della memoria. Si avverte in Santa Lucia l’eco di un film come Cronaca familiare (1962) di Valerio Zurlini, con quei due fratelli separati alla morte della madre e la storia del loro difficile rapporto che riemerge dalla memoria e che si apre anch’esso con una telefonata che annuncia la morte di uno dei due (forse non è un caso se nel film di Zurlini il fratello scomparso si chiami Lorenzo). Ma nel ricordo dell’incidente funziona ancora la forma della congettura, dacché si avverte una oscura simmetria tra i due fratelli, quasi fossero l’uno il “sogno” dell’altro, la figura di un doppio rovesciato. Del resto Roberto dirà di sé nella chiusa del film: “Ho provato ad essere un altro e adesso non so più chi sono”. Il nucleo onirico, il “ritorno del rimosso”, connesso alla cecità in questo film fa venire in mente un celebre sogno di Freud:

Nella bottega di barbiere ove si reca quotidianamente, anche nel giorno del funerale del padre, Freud nota sulla parete un cartello […] il messaggio è Si prega di chiudere gli occhi. Anche noi vogliamo, adesso, raccogliere queste parole, e ci disponiamo a seguirle [...] al fine di scoprire dove possono condurre. Vogliamo sognare il sogno, ripercorrerlo una seconda volta [...] Saremo sognatori che accolgono un pensiero randagio; ovvero per prima cosa chiuderemo gli occhi, acconsentendo allo stesso invito che viene rivolto, con l’intento di accedere alla vista voluta. […] lasceremo che una benda […] intervenga a oscurare la nostra vista, e procederemo a rischio della caduta, gioendo della nostra erranza (Vitale 2007, pp. 87-88).

Insomma accetteremo noi spettatori l’invito che questo film perturbante ci indirizza: vederlo con gli “occhi di dentro”.

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, Memorie di cieco, Abscondita, Milano 2003.
S. Vitale, «Si prega di chiudere gli occhi». Esercizi di cecità volontaria, Editrice Clinamen, Firenze 2007.

Santa Lucia. Regia: Marco Chiappetta; interpreti: Renato Carpentieri, Andrea Renzi, Biancamaria D’Amato, Antonia Marrone, Edoardo Sorgente, Giuseppe Festinese, Manuel Carolla, Alfredo Ciruzzi, Giuseppe Festinese, Manuel Carolla, Suami Puglia; produzione: Teatri Uniti, Riverstudio; distribuzione: Double Line; origine: Italia; anno: 2022; durata: 76′.

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