Racconta Paolo Isotta in San Totò (Marsilio, 2021) che quando arrivò a Napoli, nell’aprile del 1967, la notizia della morte di Totò, le donne uscivano dai bassi e piangevano, come fosse morto un parente. Il funerale fu un avvenimento epico, cui partecipò tutta la città, tra gente stipata in chiesa, ad ascoltare le commoventi parole d’addio pronunciate da Nino Taranto, e quella radunata per strade e piazze, su terrazzi e balconi, marea umana ondeggiante, che poteva anche far paura.

Apprezzato critico musicale, spentosi purtroppo a febbraio di questo stesso anno, Paolo Isotta non era e non si considerava un critico cinematografico, ma era stato cresciuto dal padre nel culto di Totò. Suo padre era convinto che non si potesse apprezzare pienamente l’arte del grande comico napoletano senza averlo visto almeno una volta a teatro, ma Isotta, dal canto suo, si cimenta nell’impresa di abbozzarne il ritratto a partire dal materiale disponibile, cioè dai film e dalle partecipazioni televisive. Per il resto, giustamente, affidandosi alle analisi di studiosi come Roberto Anile (autore di diversi libri su Totò) o Roberto Escobar (autore di Totò. Avventure di una marionetta). Nella prima parte del libro, dunque, Isotta ne tenta il ritratto, che risulta a tutti gli effetti il ritratto d’un Santo, non solo per suggestione del film San Giovanni decollato, diretto nel 1940 da Amleto Palermi. Dopo la fame nera e la miseria degli esordi, le prime scritture cinematografiche e l’incontro con l’impresario teatrale Jovinelli gli offrono una certa tranquillità economica, ma Totò rimane dolorosamente colpito dal suicidio di Liliana Castagnola, sua prima compagna, ma molto più anziana di lui. Chiamerà Liliana la figlia avuta con lei, e a questa figlia resterà affezionatissimo fino alla fine.

Con i primi guadagni, sistema la propria situazione anagrafica, si fa riconoscere dal barone De Curtis, presunto padre, e comincia la ricerca dell’altrettanto presunta ascendenza nobiliare. In tutto questo crede e non crede, ma in fondo è convinto d’una cosa sola: se fa ridere, è perché è cresciuto alla scuola della miseria, ed è questa la ragione principale per cui la gente si riconosce in lui. Isotta sottolinea opportunamente l’iniziale vicinanza di Totò con Gustavo De Marco, il comico-marionetta dal corpo snodabile, surrealista senza saperlo. Trova addirittura assonanze con Petrolini. Poi affronta il problema delle varie “spalle”, dei Pavese, dei Mario Castellani, porgitori di battute capaci di assecondare ogni sua improvvisazione, e dei grandi comici come Peppino De Filippo, Macario, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, ecc., che erano in grado di stargli alla pari, ma spesso erano travolti dalla sua incontenibile esuberanza. Fellini avrebbe voluto lavorare con lui, ma non ne ebbe l’occasione: occasione che invece capitò a Pasolini, oltre che a Rossellini (Dov’è la libertà?), Monicelli (Totò e Carolina), Bolognini (Arrangiatevi) o Lattuada (La mandragola).

Al tentativo di ritratto, nel libro di Isotta, seguono le schede dei singoli film di cui Totò è stato interprete, ordinati cronologicamente. E qui ricordo quello che di lui disse Pasolini, dopo Uccellacci e uccellini (1966) e Che cosa sono le nuvole? (1968): utilizzando Totò come attore, aveva come l’impressione di suonare un prezioso violino, uno Stradivari. Totò non ha mai deluso le aspettative economiche (anche estremamente miopi) di chi investiva (a buon mercato) su di lui. Autentica macchina di successi, Antonio de Curtis viene assoldato anche per sponsorizzare le due principali rivoluzioni tecniche del cinema del dopoguerra: suo il primo film italiano a colori, Totò a colori, del ’52, e il primo in 3D, Il più comico spettacolo del mondo (1953). A volte il suo era un cinema “mal fatto”, filmicamente povero (sul piano formale e su quello produttivo), dalla regia di routine: a contare erano le sue performance, che si ripetevano non tali e quali, ma con mille variazioni, rispetto alla loro versione “dal vivo”, nella rivista, nel varietà, quasi senza alcuna coscienza del passaggio attraverso il medium tecnologico.

Con il sonoro, iniziano a spadroneggiare, nel cinema italiano, l’impero dei dialetti e il gioco delle maschere. Quest’ultimo in effetti verrà potenziato da Pasolini, con l’uso delle truccature “altre” (coloratissime), in un riallaccio consapevole alla comicità del muto. Ma già in Totò cerca casa (di Steno e Monicelli) si vede l’effetto di accelerazione del frenetico timbraggio dei moduli (e del solito onorevole trombone) all’ufficio postale (i corpi/oggetti). Gli oggetti di Totò sono gli uomini, le donne, che usa e distrugge con sfrontato cinismo. I suoi “materiali plastici” sono, come abbiamo detto, i Pavese, i Campanini, i Castellani, i Peppino, costantemente ingannati, derisi e brutalizzati, ma il materiale verbale costituisce in fondo la sua specificità peculiare. Sono le distrazioni del linguaggio. Per dirla con Bergson, non si tratta d’una comicità espressa dal linguaggio, ma da esso creata. Così, di distrazione in distrazione, può accadere (Totò sceicco, 1950) di passare inavvertitamente da una lingua all’altra, e di parlare l’arabo senza saperlo.

“Dove va lei con tanta sicumera?” chiede a Totò il giardiniere della villa del sindaco in Totò a colori – ma la sicumera, in bocca barese, è come diventasse un’accompagnatrice, e comunque così Totò finge di (non) capire. “Adelante! Adelante!” dice Dorian Gray a Totò e Peppino, che ha scambiato per impresari spagnoli, in Totò. Peppino e la malafemmina, ma Totò risponde “No. Adelaide non c’è”. L’onorevole Trombetta (“Lei onorevole? Ma mi faccia il piacere!”), cui capita la sventura d’essere compagno di Totò in wagon-lit (Totò a colori) tenta di spiegargli che una volta faceva l’ostetrico, e Totò si mostra comprensivo: “Certo, con le ostriche si guadagna poco”.

Il Totò neo-realista, il Totò patetico, era in fondo un Totò minore. Il Totò più autentico era quello scatenato. La maggior parte dei registi, da Mattoli a Mastrocinque a Bragaglia, di fronte alle sue performance, non poteva che limitarsi a dire “Buona la prima!”. In vecchiaia era quasi cieco, ma sul set sembrava tornare miracolosamente a vedere. Si racconta che solo una volta il principe De Curtis fu costretto a ripetere una scena. Era la famosa dettatura della lettera in Totò, Peppino e la…malafemmina. Talmente comica, talmente irresistibile, che la prima volta uno dei tecnici, forse un elettricista, non aveva resistito ed era scoppiato a ridere. La scena si dovette girare di nuovo, ma siamo sicuri che Totò ne approfittò per infilarci nuove variazioni, nel repertorio infinito delle distrazioni del linguaggio.

Paolo Isotta, San Totò, Marsilio, Venezia 2021.

Share