Il capofila della terza generazione post-Nouvelle Vague, che la critica francese spesso chiama “generazione Desplechin”, è un convinto sostenitore dell’idea di messa in scena come arte del servire un testo. Nel caso di Roubaix, una luce nell’ombra (2019), il testo è un documentario televisivo realizzato da Mosco Levi Boucault e trasmesso su France 3 nel 2008, Roubaix, commissariat central, affaires courantes. Si trattava di un’attenta opera di osservazione del lavoro quotidiano di un commissariato, senza alcuna spettacolarizzazione: soltanto lo sguardo della camera che varca una soglia abitualmente interdetta, una frontiera attraversata fin dagli anni ottanta da documentari come Faitsdivers (1983) di Raymond Depardon o dalla serie reality Cops (1989-2020) di John Langley. Il documentario di Boucault seguiva in particolare gli sviluppi (indagini e interrogatori) di un fatto di cronaca nera che aveva sconvolto la città di Roubaix: in un quartiere svantaggiato, una donna anziana fu strangolata da due giovani vicine di casa; il delitto era maturato durante un tentativo di furto in casa della signora. La forza di questo originario Roubaix è nella rappresentazione di uno spazio eterotopico; come ha scritto Daniele Dottorini a proposito di Histoire de Paul (1975) di René Féret, «ciò che il film lavora è la possibilità di mostrare i rapporti di coesistenza, di trasformazione e ordinamento dei corpi all’interno del sistema».

Per entrare nel sistema, Desplechin si mette dunque al servizio del documentario di Boucault, lo ricrea mettendolo in scena, avvalendosi di attori di fama e personalità: il protagonista, commissario di Roubaix, è interpretato da Roschdy Zem, interprete caro prima a Techiné e poi a Bouchareb; una delle due assassine è Léa Seydoux, star del cinema internazionale e protagonista di La vita di Adele (Kechiche, 2013); la sua complice è Sara Forestier, protagonista di La schivata (Kechiche, 2003).

Il film si apre con una sequenza notturna di luminarie natalizie che si conclude con la visione di un’automobile in fiamme, un montaggio sostanzialmente tonale articolato in gradi variabili di luminosità. Parte da qui il primo caso affrontato in commissariato: un pover’uomo ha incendiato la propria auto nella speranza di ottenere un risarcimento dall’assicurazione. Il commissario trascorre la notte di Natale con il sospettato, impegnandolo in un lungo e pacato dialogo sulle conseguenze delle azioni. Nel frattempo, gli altri agenti indagano su un secondo incendio doloso, appiccato da ignoti a un caseggiato popolare; la ricerca dei colpevoli passa dalle testimonianze dei recalcitranti inquilini. Fra questi, due donne conviventi sembrano sapere qualcosa, ma sono restie a testimoniare; da alcune indicazioni, la polizia si mette sulle tracce dei possibili artefici, senza venirne a capo. In questa struttura a linee narrative multiple, ora è nuovamente il commissario a condurre la ricerca di una ragazza scomparsa; per lui è un percorso a ritroso, verso le proprie radici algerine, utilizzando una rete di contatti familiari.

Dopo il facile ritrovamento, il film prende una pausa dalla concatenazione causale della detection per mostrare il commissario intento nell’apprezzamento di un cavallo da corsa in fase di addestramento, la sua passione; ma questa deviazione si interrompe a causa di un nuovo reato da perseguire: lo stupro di una ragazza nella metropolitana. Nessuno di questi inneschi narrativi genera una linea montante dell’azione; gli eventi si susseguono con il passo lento e meditato della partitura musicale di Grégoire Hetzel, una toccante composizione minimalista che con le sue dinamiche crescenti e i suoi vuoti diventa la sinfonia notturna della città. Per la prima volta nella lunga collaborazione tra Hetzel e Desplechin (sei film a partire da Il re e le regine) non vengono utilizzate musiche preesistenti a integrazione di quelle originali; il compositore si appropria del film e ne offre una sua interpretazione personale, che diventa indubbiamente una dominante anche ritmica oltre che emotiva.

La prima metà del film è strutturata dunque da uno sguardo zenitale che osserva un campo di battaglia; in termini aristotelici, diremmo che è lo sguardo di uno storico. La seconda metà è completamente diversa: il turning point costituito dalla scoperta del cadavere della donna anziana strangolata ci presenta un nuovo nodo da sciogliere, questa volta totalizzante, che si dipana sino al finale. Protagoniste assolute di questa seconda parte sono le due donne che abbiamo conosciuto in precedenza, le testimoni riluttanti. Da qui in poi il commissario non farà altro che ascoltarle: gli interrogatori si susseguono, singolarmente e in coppia; le versioni dei fatti sono discordanti, poi cominciano a collimare, fino alla scena decisiva del reenactement, in cui le due assassine, condotte sul luogo del delitto, sono obbligate a ripetere i gesti compiuti.

La confessione è un processo ottenuto attraverso la messa in scena, ed è in questo punto che si chiarisce al massimo grado in che modo Desplechin si ponga al servizio del primo Roubaix: come i personaggi sono chiamati dal commissario a recitare le azioni compiute, così le attrici sono chiamate dal regista a recitare i personaggi. Il metodo Desplechin consiste, come disse in un’intervista di Jared Rapfogel, nel cercare non la realtà, ma la verità attraverso la realtà. Risolta la questione del metodo e del senso, il film può chiudersi con grande eleganza, con un fermo fotogramma della corsa dei cavalli all’ippodromo.

Alla fine della proiezione ci rendiamo conto che forse non abbiamo visto davvero Roubaix, la città di Desplechin, dove il regista torna spesso a girare. Ma l’abbiamo certamente attraversata e pensata.

Riferimenti bibliografici
A. de Baecque, T. Jousse, Le retour du cinéma. Débat avec Arnaud Desplechin, Hachette Littérature, Vanves 1996.
S. Cavell, Arnaud Desplechin, Pourquoi les films comptent-ils?, in “Esprit”, n. 8-9, 2008.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018.
J. Rapfogel, A. Desplechin, One Idea Every Fifteen Seconds: An Interview with Arnaud Desplechin, in “Cinéasten”, n. 30, 2005.

Roubaix, una luce nell’ombra. Regia: Arnaud Desplechin; fotografia: Irina Lubtchansky; montaggio: Laurence Briaud; sceneggiatura: Arnaud Desplechin e Léa Mysius; interpreti: Roschdy Zem, Léa Seydoux, Sara Forestier, Antoine Reinartz; produzione: Pascal Caucheteux, Grégoire Sorlat, Why Not Productions, Arte France Cinéma; origine: Francia; anno: 2019; durata: 119′.

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