Woody Allen, 85 anni. Wallace Shawn, 77 anni. Gina Gershon, 58 anni. Louis Garrel, 37 anni. Elena Anaya, 46 anni. Se non partiamo dall’età degli attori non comprendiamo Rifkin’s Festival. La ronde amorosa messa per l’ennesima volta in scena da Allen fa stridere più ancora del solito la differenza di età dei personaggi. La storia, infatti, racconta di un anziano professore di storia del cinema, che ha una moglie di circa vent’anni più giovane, la quale si innamora a sua volta di un regista di vent’anni più giovane di lei. Mort Rifkin, il cinefilo, cerca allora di avvicinarsi a un’altra donna, che ha invece trent’anni meno di lui.
A parte qualche accenno al perché e al come il brutto anatroccolo Mort sia riuscito a sposare l’avvenente Sue, tutte le altre questioni anagrafiche sono in verità abbastanza sottaciute nella sceneggiatura. Tocca allo spettatore rendersi conto della distanza che c’è tra i personaggi e i loro amanti, tra i desideri e le aspirazioni, tra la fantasia e la realtà, tra la speranza di felicità e la situazione oggettiva del proprio essere. Ciascuno di loro, anche se non lo ammette nei dialoghi – e nemmeno nella voce fuori campo – sta cercando di vampirizzare l’energia vitale di persone più giovani. Talvolta con successo (Sue, ma chissà per quanto tempo), talaltra invano. Essendo il film più malinconico che abbia realizzato sulla senilità, Rifkin’s Festival di Woody Allen è anche una spietata analisi dell’inconsistenza del fascino intellettuale quando gli anni si fanno sentire, quando i discorsi sono sempre gli stessi, quando il corpo presenta il conto (e questa volta la tradizionale ipocondria dei protagonisti alleniani ha un ribaltamento di senso strepitoso; Mort “spera” di avere qualche malattia pur di frequentare una bella dottoressa: a questo è ridotto il seduttore nevrotico che faceva strage a Manhattan di giovani studentesse).
A fianco dell’insopprimibile aspirazione al romance, che per i personaggi alleniani sembra inestirpabile anche in vecchiaia, viene svolto il tema della cultura cinematografica e della passione per la settima arte. Mai come questa volta Allen si presenta radicalmente convinto che l’età dell’oro del cinema si sia svolta dagli anni quaranta agli anni settanta, e principalmente grazie al cinema europeo (con l’eccezione di Orson Welles). Per questo motivo dà vita a numerosi siparietti/parodia di classici del cinema, con spirito quasi goliardico e senza prendersi troppo sul serio, attraverso una pratica piuttosto inedita di “inscrizione” della citazione dentro lo svolgimento del film, a metà tra il sogno bergmaniano e la fantasticheria felliniana.
Che senso ha questa cocciutaggine di fronte al pantheon risaputo dello storico del cinema conservatore? C’era bisogno di altre battute sugli ebrei, di ulteriori omaggi a Il posto delle fragole, di altre sedute psicanalitiche? Dipende. Dobbiamo decidere che cos’è Rifkin’s Festival e chiederci se ha un ruolo diverso da quello – che ben conosciamo – di opera minore nella filmografia del regista newyorkese. Gli indizi per questa seconda interpretazione sono più di uno, a cominciare da che cosa non è. Allen rinuncia del tutto alla commedia del ri-matrimonio, e rinuncia a rendere nemmeno lontanamente credibile una storia d’amore tra Mort e la giovane dottoressa che lo cura. Il tempo che passa ha eroso il sistema stesso del cinema alleniano. Forse non qui per la prima volta, ma qui in maniera dolorosa e chiara.
Non vorremmo essere accusati di body shaming critico se sottolineiamo le scelte di rappresentazione che Allen decide per Mort. Non solo un uomo basso, calvo, panciuto, con una voce lamentosa e una desiderabilità pari a zero, ma anche una persona che si veste in modo trascurato, con abiti casual decisamente inadatti a lui. Un uomo, Mort, che è abituato a puntare tutto sulla sua ironia e sulla sua passione per il cinema e la cultura, ma anche qualcuno che – mentre si lamenta di quanto il mondo sia cambiato, a cominciare da quello del cinema – capisce con malinconico realismo che anche lui è cambiato. Mort si chiede implicitamente perché in fondo qualcuno dovrebbe ormai essere sedotto – anche solo intellettualmente – da lui. Si tratta di un personaggio postumo tanto quanto il cinema di Allen si riferisce a un canone storiografico del cinema che non sembra interessare ormai altro che le cineteche e appunto i festival.
Perché il film si intitola “il festival di Rifkin”? Ad Allen, pur ospitato a San Sebastián (ringraziata con alcune riprese molto belle e con le luci dorate della fotografia di Vittorio Storaro), il festival basco interessa ben poco. Il festival di Rifkin è quello che egli si proietta in mente, la lista dei capolavori del passato, la camera verde delle opere d’arte cinematografiche che Mort, essendo un inadeguato e a suo modo un inetto, può solo parodiare. Del resto, Allen ha sempre lamentato il suo “essere venuto dopo” i grandi del cinema, e di aver potuto solo maldestramente imitarli, con la stessa sindrome dell’impostore e la stessa sensazione sproporzione da schlemil di quella che è sempre stata una filosofia dell’impossibilità, un’emulazione ironica del divino (essendo il divino in questo caso il cinema dei maestri). Un Edipo relitto, insomma.
Ora che il festival è finito, la filmografia è agli sgoccioli, la vecchiaia impedisce la seduzione, le ambizioni professionali sembrano mal risposte, che cosa rimane? Il passato. Accontentarsi della vita ricca e imperfetta che si ha avuto. Osservare ancora il mondo sapendo benissimo che nulla di veramente nuovo potrà ancora accadere. Un film testamentario, quindi, che nulla ovviamente ha a che fare con la morte reale dell’autore. In fondo Allen aveva già scritto e diretto un film-testamento, Harry a pezzi, spietata autobiografia come summa della sua narrativa intrecciata a un remake comico di Il posto delle fragole, ed era molti anni fa. Anche Gran Torino è il film testamento di Clint Eastwood e poi sono seguiti tanti altri film. E ulteriori esempi potrebbero essere fatti. Ma il film turistico di Allen questa volta non ha la gioia di Barcellona o Parigi, suona più come il piccolo esilio produttivo del buffone di corte, che gioca l’ennesima partita a scacchi con la morte (Mort, appunto, che in italiano suona benissimo) ingannando l’attesa con due o tre battute di quelle che ancora oggi nessuno sa raccontare così bene.
Rifkin’s Festival. Regia: Woody Allen; sceneggiatura: Woody Allen; fotografia: Vittorio Storaro; montaggio: Alisa Lepselter; musiche: Stephane Wrembel; interpreti: Elena Anaya, Louis Garrel, Gina Gershon, Sergi López, Wallace Shawn, Christoph Waltz, Steve Guttenberg, Richard Kind, Nathalie Poza, Enrique Arce, Damian Chapa, Georgina Amorós, Douglas McGrath, Tammy Blanchard, Bobby Slayton, Ken Appledorn; produzione: Gravier Productions, The Mediapro Studio, Wildside; distribuzione: Vision Distribution, Wildside; origine: Stati Uniti d’America, Spagna, Italia; durata: 92’.