«Guarda come il sole distilla e penetra questa stanza, quasi non intralciato dalla luce, di granello in granello, tra le numerose componenti dell’oscurità». È una frase tratta da I piantatori e i poveri bianchi di William Faulkner che Vittorio Storaro ama spesso citare per descrivere il suo lavoro. Il “sole” — dice lui — che penetra “l’oscurità” non intralciato dalla “luce”, è la rappresentazione della contraddizione e del paradosso alla base di ogni sequenza cinematografica. Il contrasto nel dispositivo originario fotografico tra la luce naturale e quella artificiale, la resa visibile della loro opposizione a contatto con la materia (“di granello in granello”), nel rapporto reale e negativo con l’oscurità, che assume il portato simbolico di un incontro capace di dare forma al visibile.
La dialettica tra luce naturale e artificiale, la capacità della luce di plasmare il reale e di alterarne simbolicamente le componenti (il cosciente e l’inconscio, il maschile e il femminile, ecc.) o, attraverso la penombra, di renderle uniformi: sono alcuni dei più grandi temi della tradizione pittorica occidentale, da Caravaggio a William Blake, che in cinquant’anni di carriera l’arte di Storaro ha saputo cogliere e trasporre cinematograficamente. A partire dall’immortale sequenza de Il conformista (1970) di Bertolucci, che segna uno dei passaggi decisivi di tutta la modernità cinematografica: Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant) va a trovare il suo professore Luca Quadri esule in Francia durante il fascismo per ucciderlo. Quando lo incontra, nello studio del suo appartamento parigino, apre una finestra e fa entrare un raggio di luce che taglia a metà la sua figura e ne proietta l’ombra sul muro. Come ne La vocazione di san Matteo di Caravaggio. Un “mito della caverna” in cui si consuma il dispositivo della visione come una prassi di finzione, in cui il dato naturale della realtà è negato e manipolato dalla luce, nel tentativo di costruire una grande metafora del fascismo.
Oppure, sempre ne Il conformista, quando il conflitto tra luce naturale e artificiale fissa la dialettica storica che il film racconta (quella tra fascismo e antifascismo) in un orizzonte dalle venature bluastre e impersonali. Lo scontro tra condizione secolare e astratta dell’umano raffigurata attraverso un puro movimento cromatico dai toni caldi e accesi dell’interno a quelli freddi e anonimi dell’esterno. Esattamente come, nove anni dopo, la sovrapposizione di culture nei processi di civilizzazione in Apocalypse Now (1979) prende metaforicamente forma nei fumi gialli e violacei del napalm che si stagliano violentemente contro il verde della giungla in Vietnam. O, all’opposto, il colore arancio, caldo e personale, della luce artificiale che avvolge i corpi di Marlon Brando e Maria Schneider nell’appartamento di Ultimo tango a Parigi (1972), “negando” così il mondo esterno; e ancora le differenti gradazioni delle quattro stagioni come grande metafora della vita e della Storia in Novecento (1976), o l’intima simbologia dell’intero spettro cromatico ne L’ultimo imperatore (1987).
Frammenti e sequenze sparse della carriera straordinaria di un artista che il 24 giugno scorso ha compiuto ottant’anni. Dall’esordio nel 1969 con Giovinezza giovinezza di Franco Rossi, ai capolavori di Bernardo Bertolucci e Francis Ford Coppola, fino ai film con Warren Beatty, Paul Schrader, Carlos Saura, Woody Allen. I tre Oscar (Apocalypse Now, Reds, L’ultimo imperatore), gli anni di docenza all’Accademia dell’Immagine dell’Aquila, la produzione teorica (i tre volumi di Scrivere con la luce), le personali in alcuni degli spazi espositivi più importanti al mondo (dal Guggenheim a Montecitorio), l’illuminazione architettonica di luoghi iconici come i Fori imperiali a Roma o il Battistero a Firenze.
L’importanza di Vittorio Storaro nella storia del cinema italiano e internazionale non si limita però alla straordinaria valenza estetica dei suoi gesti espressivi, o allo spessore “teorico” e autonomo che ha saputo dare all’opera del direttore della fotografia — fino ad allora considerato semplicemente un operatore tecnico e artigianale dell’immagine a servizio della visione del regista. L’arte di Storaro è soprattutto uno snodo decisivo nel ripensamento di quella continuità tra immagine movimento e immobilità pittorica che, sin dalle origini, il cinema ha tentato di sopravanzare, in nome di un’adesione mimetica al piano di realtà. Con Storaro — e altri cinematographer quali Greg Toland, Gordon Willis, Sven Nykvist, John Alcott — l’immagine cinematografica ha saputo per la prima volta scartare dalla sua origine romanzesca e teatrale per diventare un dispositivo fondato sulla messa in movimento della staticità fotografica e dei suoi richiami pittorico-figurativi, piuttosto che sulla temporalità narrativa del suo impianto diegetico (come è accaduto dalla classicità in poi).
In altre parole, la cifra riconoscibile della fotografia di Storaro non è altro che la costruzione di un piano espressivo attraverso cui la dinamicità dell’immagine è stata capace di ricucire la cesura che l’impianto mimetico fotografico del cinema (con i suoi rimandi fondativi alla realtà empirica), e il suo sviluppo orizzontale e narrativo, hanno tradizionalmente tracciato rispetto alle forme e agli stilemi della tradizione figurativa occidentale. Una vera e propria firma pittorica dell’immagine in movimento, che oltre ai già citati Caravaggio e Blake, mette in gioco in modo eterogeneo tutto il precipitato dell’immaginario moderno, europeo e statunitense: dalle citazioni della pittura primitiva e di Magritte in Strategia del ragno (1970) a quelle delle figure urbane di Norman Rockwell ne La ruota delle meraviglie (2017), dalla staticità delle pose fiamminghe in Reds (1981) alle prospettive di Mantegna in Addio fratello crudele (1971), dalla pittura elettronica (Un sogno lungo un giorno, 1982) a Francis Bacon (Ultimo tango a Parigi).
Gli ottant’anni di Storaro rappresentano dunque il lungo percorso che, attraverso il suo lavoro, il cinema ha compiuto verso la costruzione di un nuovo regime moderno del visibile. La scrittura con la luce nelle pieghe del racconto, il primato spaziale della forma visibile sullo sviluppo temporale dell’azione: un’eredità inattuale su cui il cinema e la serialità contemporanei hanno il dovere di interrogarsi e auspicabilmente accogliere.
Riferimenti bibliografici
F. Ceraolo, L’immagine cinematografica come forma della mediazione. Conversazione con Vittorio Storaro, Mimesis, Milano 2012.
W. Faulkner, I piantatori e i poveri bianchi. Le donne del sud, Mondadori, Milano 1966.