Nel 1980 esce Storia di Piera, romanzo anti-edipico, memoriale spregiudicato e ammazza-famiglie scritto in prima persona singolare femminile ma con Dacia Maraini, la complice e amica del cuore. Quelle confessioni impudiche, acratiche, allergiche al Potere, su Bologna visceralmente vissuta a metà ‘900, Piera Degli Esposti le riscriverà per il cinema, e diventeranno il cult movie femminista di Ferreri.
Il 1980 è l’anno dell’attrice-autrice-affabulatrice che esplode sulla scena nello spettrale Rosmersholm, da Ibsen. Nel film Piera è Isabelle Huppert, irrequieta sul set per rendere con più grinta la natura di quel “vulcano straripante” (così la definisce la collega Clara Galante). Hanna Shygulla (in uno dei suoi ruoli d’affezione) è la madre, spericolata teatrante, domestica. Il set è Sabaudia, genius loci di un’Italia fascista ancora da smidollare. Mastroianni è il più che adorato padre sindacalista che insegnò a Piera il senso della giustizia. Un manipolatore, da lei, anche fisicamente, molto manipolato. Non film-narrazione ma film-racconto, come il successivo Il futuro è donna (stesso team): non combinazione di fatti significativi secondo la logica dell’azione – spiegò Maurizio Grande – ma somma di elementi raccolti, contenuti e ordinati nell’inquadratura e presenti come fatti sensibili.
“Fatto sensibile”, non personaggio, Piera era anche dal vivo, nel duetto d’amore represso e psicologicamente devastante tra Johannes e Rebecca, istigati al doppio suicidio da fantasmi della memoria, presunti crimini commessi e incestuosi sensi di colpa. Il dramma di Ibsen, sullo sgretolamento dell’etica protestante e su un individualismo sciolto da dogmi e codici anche sessuali, fu riplasmato da Massimo Castri e dallo scenografo Maurizio Balò che divisero il palcoscenico, lo ricorda Capitta su “il Manifesto”, «in due metà identiche e separate, in cui i protagonisti del testo comunicavano come sentendosi l’un l’altra alla radio». Lei doppiamente trionfante: lì, con Ferreri, perennemente bambina, e qui (premio Ubu) adulta, con Schirinzi, ma identico cuore candido e selvaggio, una curiosità aptica per il mondo, una capacità di scodellarcelo senza orpelli.
Seducente l’empatia contagiosa di Piera Degli Esposti, ma soprattutto lo sguardo, perennemente rapace, pungente, autoironico, egemone. Politicamente radicale, amica di Nilde Jotti e Luciana Castellina, l’enfant terrible della scena apparteneva alla fazione minoritaria della sinistra festiva, amante (da irriducibile buddista) più del gioco patafisico e della burla zen che dell’autismo internet. Ascoltiamola, novella Paolo Poli, nell’audiolibro di Achille Campanile, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima.
Una carriera fatta di continue «esplosioni», la sua. Prima e dopo il 1980. Era “o verbo nuovo” – sentenziò Eduardo De Filippo – l’inincasellabile. Scoperta a Bologna, ma bocciata dall’Accademia romana e nei provini Rai/Cinecittà, entra nella clandestinità underground, assieme a Proietti. Il Teatro dei 101 di via Turba è il garage di Antonio Calenda, che la manda anche nei quotidiani a far promozione incantando i redattori. È poi a L’Aquila con Ida Bassignano e Giancarlo Cobelli, e con Tarantino (lo Stabat Mater), tra elisabettiani, l’Ulisse, Eschilo, Gombrowicz e l’indigesto D’Annunzio. Sul piccolo e grande schermo scodellerà dopo, dal 1963, oltre 80 ruoli (3 film sono in post-produzione). Dal Conte di Montecristo Rai con Andrea Giordana e dal mitico Circolo Pickwick di Ugo Gregoretti, dove buca il televisore come fosse in 3D, fino al sottovalutato e camp Favola di Sebastiano Mauri (2017), passando per Trio, lanciata nel 1967 dall’amico Mingozzi, i Taviani (Sotto il segno dello scorpione), i 3 Wertmuller, Moretti (Sogni d’oro), Sorrentino (Il divo, secondo David). L’«educato e suadente» Pasolini la vuole, ma poi la taglia molto in Medea e Bellocchio (la zia Maria di L’ora di religione, valanga di applausi a Cannes) la conduce al primo David. Lavora preferibilmente con registe (Torrini, Infascelli, Torre, Cecere) ed esordienti “irregolari”. Ruoli non sempre contenuti adornano una filmografia da caratterista extra lusso, fino a Tre donne morali (2006) – monologhi devastanti sullo stato pietoso del nostro immaginario. Marcello Garofalo le affida il monologo di Ersilia Vallifuoco, ex suora poi esercente di sala porno che, cinefila dell’estremo, fa a pezzi Cinecittà, sprecona di talenti e geni, obesa di perbenismo.
Non esistono piccole parti ma solo piccoli funzionari Rai/Mediaset. Se “teatro d’appartamento” fu negli ultimi anni la sua casa aperta di via del Governo Vecchio, non mancarono happening clamorosi, dal plateale bacio, da groupie, all’idolo Mitchum, al duetto con Palamara che ancora nel 2013 indagava sulla strana presenza dell’attrice (tra le 11.30 e le 13.30) in via Caetani, appoggiata il 9 maggio 1978 alla Renault 4 rossa con dentro Aldo Moro (colto supporter del teatro e del cinema off) assassinato.
Un occhio esperto, Giorgio de Chirico, sottolineò il suo trasformismo bisex, al termine di A dieci minuti da Buffalo di Gunter Grass, congratulandosi con “Molto bravo!”. “Ma io sono una femmina!” replicò lei. E lui “Bravo lo stesso!”. La voce-corpo di Piera era stata fabbricata da teenager, attraverso training sconsigliabili: spingere maniacalmente i cassetti del comò col ventre, e agire sul diaframma. O immergersi nell’acqua bollente, verso trance e estasi. Poi yoga e Oriente ampliano timbri e scale. Il gioco gestuale va oltre il ben temperato. La comunicazione tra lei, antagonista, pubblico, testo e coscienza è multipla e simultanea. Sul recitare “a fianco” del ruolo (come esige Buy in Mia madre di Moretti) ci regala performance da virtuosa appassionata che sbeffeggiavano la rappresentazione accademica di un testo morto, la giustapposizione tecnica delle espressioni. Si apparentavano, più che al contorsionismo psicologico del Metodo, a complessi esperimenti di laboratorio sulla vocalità, sulla ricerca della parola-baricentro. La scrittura diventava più importante dell’Io narrante, sulla quale far ruotare a giostra fonemi e morfemi della battuta.
Performance che puntavano alla presenza scenica “crudele”. Operazioni prescritte, da Artaud in poi, per resuscitare un testo e coinvolgere/sconvolgere lo spettatore in un rito vivo, perturbante, straniato razionalmente e visceralmente pericoloso. Nei venti anni precedenti Carmelo Bene (che la voleva per Adelchi, ma lei era troppo, come lui) aveva pericolosamente riattivato la potenza tellurica di Shakespeare, Collodi, De Musset o Laforgue. Non si trattava di risvegliare i sentimenti o di addormentarli, ma di evocare esperienze “cosmicomiche”. L’arte non è forse il canto del mutante che scopre la propria mutazione?
Oltre che nella letteratura, anche nel teatro della modernità, cioè della esplosione dell’individualità più libera, radiante e pulsionale, James Joyce fu cruciale. È del 1978 Molly Cara, monologo da Ulisse, impresa monstre imbastita con la futura ronconiana Ida Bassignano (primo premio Ubu), carta geografica emozionale privata ma in cui si specchiano le miserie, i ricordi, le avventure, le immagini, il sesso, la rabbia, il piacere e le conquiste collettive. Pasolini su Vie nuove, nel 1960, spiega il monologo moderno:
Si diceva nell’800: “Egli fece, egli andò”, dichiarandosi, in quanto autori, autorizzati cronisti di fatti indubitabili. Ma poi c’è stata la crisi della borghesia e la sua ideologia letteraria è andata in frantumi. Si è cercata allora l’oggettività dentro l’“io” (Proust), come unico garante di reale e sperimentata esistenza. Joyce ha tentato qualcos’altro: è entrato cioè non nel suo “io”, ma nell’“io” di un altro uomo, diverso da lui psicologicamente e socialmente: non ha detto cioè né “egli fece, egli andò”, né “io feci, io andai”: ma qualcosa che sta in mezzo: la mimetizzazione, la ricostruzione in laboratorio della corrente di pensiero di un altro essere umano studiato nella sua personale realtà.
Sempre Pasolini, nel 1963 già spiega senza saperlo il metodo Degli Esposti. La “corrente di pensiero mimetizzata” deve inventare una “pronuncia nazionale”, al di là delle orrende nazionalizzazioni fasciste:
Non basta pronunciare gli “o” e gli “e” brevi o lunghi al momento giusto, far sentire le doppie, sonorizzare equamente gli “s” parlando una lingua che in platea nessuno parla. Il vero attore sente che è una lingua infrequentabile la media parlata convenzionale televisiva. Solo se ci si pone polemicamente contro questa lingua, e si agisce sopra o sotto di essa, attraverso una poetizzazione cosciente o adottando i dialetti tradotti o adornati da una impressionante scienza mimica del corpo, come fa il sommo De Filippo, o attivando le dissacrazioni sublinguistiche e caricaturizzando come fa il cabaret la “lingua media”, insomma costruendo una recitazione espressionistica (da Stoppa a Betti), si potrà comunicare di nuovo con lo spettatore.
Fare nuova vita insieme. Non è questo il regalo ai posteri di Franca Valeri, Bene, Fo, Degli Esposti, Daniela Gara, Cobelli?
Personaggio centrale della scena e della cultura italiana degli ultimi quarant’anni, scorticatrice unica del teatro alla moda, la più alla mano dei mostri sacri, Piera Degli Esposti, che ci ha lasciato a metà agosto per gravi e annosi problemi respiratori, faceva parte anche di quella nutrita e grintosa “frazione emiliano-romagnola” che dagli anni 60 e 70 aveva sconvolto la Roma “plumbea”, scaraventandole contro un tifone laico, femminista, materialista e luciferino di enorme potenza spirituale. A partire da Laura Betti, Cavani, Carrà, Milva, Caselli. E Pasolini, Bellocchio, Zavattini, Aldo Braibanti, così importante per lei perché la tecnica dell’immedesimazione extra individuale, che cominciò con lui a maneggiare sulla scena, non era di tipo psicologico-biografico, ma biologico, ontofilogenetico. Fellini, i Bertolucci, Antonioni, Mingozzi, il Pier Farri del Filmstudio 70 e tanti altri “padani” parteciparono a quella salutare invasione barbarica, diversamente “comunista”.
E se Strehler, di cui proprio in quelle ore del 14 agosto si festeggiavano i 100 anni della nascita, l’aveva disprezzata così platealmente perché non gli si era mai genuflessa (“quella stronza”), lei, dotata di fine umorismo, scienza della posizione e gusto del gesto beffardo, l’ha proprio impallinato (così si dice tra teatranti). Gli ha rubato, “just in time”, morendo lo stesso giorno a 83 anni, tutte le prime pagine.
Riferimenti bibliografici
A. Braibanti, Impresa dei prolegomeni acratici, Editrice 28, Roma 1989.
G. Capitta, Piera Degli Esposti. L’incanto dell’affabulatrice, in “il Manifesto”, 15/8/2021.
M. Gilberti, Bravo lo stesso. Il teatro di Piera degli Esposti, Lombardi Editori, Siracusa 2008.
M. Grande, Marco Ferreri, a cura di A. Canadè, Bulzoni, Roma 2016.
M. Ludovico, Come manipolammo il caso Moro, in “Il sole 24 ore”, 1/10/2013.
P. P. Pasolini, Le belle bandiere, Edizione L’unità/Editori Riuniti, Roma 1977.
Piera Degli Esposti, Bologna 1938 – Roma 2021.