Quello di Reflection è un mondo chiuso e duro. Le scene, ambientate tra rovine di archeologia industriale e appartamenti borghesi, sono definite dall’assunzione di un punto di vista frontale e dalla presenza di una parete di fondo, in muratura o vetro, a comporre dei lungi piani che perimetrano un mondo illuminato da luce fredda. In gioco c’è, come nel precedente magnifico Atlantis, il conflitto tra Russia e Ucraina, iniziato nel 2014, con al centro una contesa territoriale.

Costruire per lunghe scene il racconto di una situazione drammatica come una guerra, con le conseguenze che determina anche sulla vita quotidiana, significa inibire lo sviluppo orizzontale dell’azione, operare una de-drammatizzazione, sospendendo ogni possibile effetto catartico. Ciò che accade è lì negli atti presenti, in quelli passati che sul presente pesano, e in quelli futuri ancora difficili da immaginare.

Il chirurgo ucraino Serhiy viene catturato dai russi, ed è costretto ad assistere alla tortura di due suoi compagni. La durezza della situazione mostrata risiede non solo negli atti compiuti, comunque molto violenti, come trapassare una coscia col trapano, ma nell’insieme della scena, ambientata nel sotterraneo di un edificio industriale dismesso, di colore rosso cupo, con luce al neon, e un parallelepipedo di pietra dove viene posto il torturato, circondato dai movimenti ieratici dei torturatori. Il medico sta lì ad accertare la morte. I corpi vengono portati su un camion con la scritta “Aiuti umanitari russi”, che contiene in realtà un forno crematorio. Serhiy riesce a non far cremare il corpo del compagno della sua ex-moglie, promettendo al soldato russo il pagamento di un riscatto. La lentezza dei movimenti e dei gesti, il silenzio dei personaggi, le rovine industriali, la brutalità degli atti, diffondono ovunque un senso di morte. Che passa soprattutto per la violenza che si esercita sui corpi. Corpi torturati e sfiniti, per cui morire è la via d’uscita migliore: tant’è che il chirurgo strangola lui stesso l’amico per accelerare l’agonia.

Tornato a casa, nell’intimo di un’abitazione borghese, con divano e vetrata rettangolare come una sorta di schermo che dà su un anonimo skyline urbano, Serhiy cerca di ricostruire un senso di umanità, sia con la figlia, alla quale manca l’uomo che viveva in casa con lei, che con la sua ex-moglie. Ad entrambe nasconde la morte dell’amico, che sarà dolorosamente chiara solo al recupero del corpo.

L’immagine di una trasparenza solida, di un mondo acquario difficile da aprire, si manifesta  chiaramente quando contro la finestra della casa di Serhiy sbatte e muore – davanti a padre e figlia attoniti – un piccione, perché “ha scambiato il vetro per un riflesso del cielo”. L’immagine della morte si imporrà in seguito anche nei loro discorsi, quando in un parco innevato, sfogliando una “Bibbia per bambini”, e cremando il piccione dopo averlo raccolto e conservato in una scatola, parleranno del destino del corpo dopo la morte, della sua preservazione integra o della sua cremazione. E il padre dirà alla figlia che per il buddismo l’anima dopo la morte si libera e si rende indipendente dal corpo.

Vedremo ancora due incidenti che riguardano la vulnerabilità dei corpi: nel primo, la figlia cade da cavallo e si rompe il braccio, nel secondo il padre viene aggredito da una muta di cani e si butta a terra a corpo morto prima di essere aiutato. Insomma il dolore dei corpi, le loro sofferenze, la loro scomparsa, la loro tumulazione, diventano esperienze diffuse in un periodo di guerra, e riconoscerle, condividerle e raccontarle diventa un modo per recuperare l’umanità quando sembra totalmente smarrita.

E il momento finale del film segnala tutto questo: siamo sul palco di un teatro, i personaggi, uno alla volta, vengono avanti in primo piano, sguardo in macchina, spalle alla platea vuota, e devono riconoscere i passi di una persona cara che cammina dietro di loro. È un gioco, una esercitazione teatrale, non abbiamo più la distanza dello sguardo dalle scene, con cui il film ha raccontato in forma riflessiva il dramma di ciò che è accaduto. Quel punto prospettico è ora occupato non dalla macchina da presa ma dal volto di un personaggio, che non vede ciò che accade alle sue spalle, ma attraverso l’udito riconosce la presenza di una persona cara. E dunque ricostruisce il suo mondo.

Vasyanovych è capace di filmare con splendida e rituale continuità scene di torture e case borghesi, lasciando depositare il tempo nella durata dei piani, ritrovando l’umanità nella sua violenza, nel suo dolore, ma anche nella capacità di uscirne. Nell’ultima immagine infatti padre, madre e figlia si ritroveranno vicini e sorridenti.

Reflection. Regia: Valentyn Vasyanovych; sceneggiatura: Valentyn Vasyanovych; fotografia: Valentyn Vasyanovych; montaggio: Valentyn Vasyanovych; costumi: Olena Harmanenko; interpreti: Roman Lutskyi, Nika Myslytska, Nadia Levchenko, Andriy Rymaruk, Ihor Shulha; produzione: Arsenal Films (Iya Myslytska,Valentyn Vasyanovych), Forefilms (Vladimir Yatsenko, Anna Sobolevska); origine: Ucraina; durata: 125′; anno: 2021.

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