Per quanto sia spesso ingrato generalizzare alcuni comportamenti nella certezza di una postura dominante, non si può non rilevare, in questo nostro tempo, la presenza di due tendenze che si stanno rapidamente radicalizzando in altrettante preoccupanti prassi: ignorare le persone che chiedono aiuto e dimenticare gli eventi che hanno tragicamente segnato il presente. Basti pensare al decesso di novantaquattro persone tra donne, uomini e bambini al largo delle acque di Cutro, nello scorso febbraio, per osservare quanto quello che avrebbe dovuto costituire un punto fermo per l’avvio di una politica volta a preservare gli esseri umani in quanto tali, ha offerto soltanto l’occasione per l’annuncio di una caccia nel palcoscenico del “globo terracqueo”. Una caccia che ha avuto i suoi primi riscontri con la condivisione, qualche ora dopo, di foto di festeggiamenti e video di karaoke in cui i principali combattenti dello Stato erano talmente impegnati e coinvolti da non aver trovato prima il tempo di rendere omaggio ai familiari di coloro che nel passaggio dalla terra al mare hanno trovato la morte.
È preoccupante il modo in cui un certo linguaggio ha condotto di fronte alla normalizzazione del fenomeno della migrazione che, al contrario, non dovrebbe mai smettere di scuotere, portando a riflettere su questioni capitali per la nostra stessa esistenza – dalla banale casualità della nascita all’impossibilità di rivendicare un diritto che, nel suo esercizio, dovrebbe impedire ad altri di sperare in qualcosa di diverso da quanto quella nascita li ha costretti a subire. Tutto quello che facciamo – anche quando lo facciamo al massimo delle nostre possibilità – non è mai abbastanza, e questo è un fatto: le centinaia di corpi che galleggiavano nel canale di Sicilia il 18 aprile del 2015, oppure il corpo di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre dello stesso anno, sono istantanee che compongono un immaginario di dolore dal quale si tende a prendere distanza. Sebbene per alcuni questo non costituisca alcun problema, per altri è terribile ammetterlo perché ciò significa perdonare la propria incapacità di azione e accettare di essere semplici spettatori in un complesso quadro che permette di intervenire, almeno parzialmente, soltanto quando qualcosa è accaduto, nella dimenticanza di quanto era già accaduto a volte soltanto poche settimane prima. Di tale meccanismo e dei suoi dolori parla Questo mondo non mi renderà cattivo, l’ultima serie di Zerocalcare (e il fatto che sia stata scritta cinque anni fa, dovrebbe, già di per sé, essere un motivo di riflessione).
Il nucleo narrativo centrale è semplice: dopo le proteste dei residenti, un gruppo di trentacinque migranti viene trasferito da un quartiere di Roma al quartiere in cui abitano Zero, Secco e Sarah. L’apparizione di manifesti contro la sostituzione etnica, la presenza sui muri di scritte che rivendicano la proprietà dell’Italia da parte degli italiani e l’incrementarsi di una propaganda volta ad affermare che la presenza del centro di accoglienza sarebbe la causa della possibile chiusura di una scuola primaria collocata nelle immediate vicinanze costituiscono i tre fattori scatenanti di uno scontro tra coloro che difendono i migranti e i gruppi di estrema destra che, per necessità di sintesi, vengono raggruppati nell’insieme dei “nazisti”. In una delle digressioni di spiegazione in cui Zerocalcare assume il ruolo del “maestrino”, viene difesa la scelta nell’utilizzo di tale espressione perché, a differenza del fascismo, nelle coordinate culturali il nazismo conserva ancora quel carattere di gravità in grado di riportare immediatamente alle stragi e agli orrori compiuti in territorio europeo. A tenere insieme le due linee narrative è Cesare, un amico d’infanzia di Zero che, dopo vent’anni passati in comunità, torna a vivere nel quartiere dove diventa uno degli esponenti più vivaci e motivati dei “nazisti”.
Nei sei episodi di Questo mondo non mi renderà cattivo, tuttavia, la vicenda della migrazione sembra passare spesso in secondo piano, lasciando che a emergere siano alcuni luoghi comuni dell’universo di Zerocalcare (riferimenti a personaggi presenti nei libri, ma anche nella serie precedente o in Rebibbia Quarantine), oltre a una sequenza di puntuali risposte alle critiche mosse a Strappare lungo i bordi che, inframezzando la serie, fungono da marcatori – a difesa o a discolpa – del reiterato utilizzo del dialetto romano e di espressioni idiomatiche che potrebbero risultare offensive per la sensibilità altrui, ai quali si aggiunge un’excusatio non petita sulla tendenza di Rech a biascicare le parole nel doppiaggio. Sul tema delle voci, a differenza del precedente lavoro, la persistenza del tono di Zero si limita alle parti in cui il personaggio ricorda, vale a dire a quelle situazioni in cui è realmente Zero a parlare al posto di un altro o di un’altra (resta costante l’eccezione dell’armadillo di Valerio Mastandrea a cui si aggiunge Silvio Orlando in qualità di agente della Digos). Le due serie differiscono anche per una maggiore caratterizzazione dei personaggi, oltre che per il disegno di una rete di rimandi e risonanze interni all’intera opera di Rech, tema già proprio della sua scrittura.
C’è, poi, un ulteriore blocco narrativo in cui è possibile raccogliere tutte quelle parti che, a partire dalle vicende di Zero e dei suoi amici, offrono una rappresentazione di cosa significa lo stare al mondo, con tutti compromessi e le contraddizioni che spesso ne segnano l’andamento. La costellazione finzionale è completata da una colonna sonora varia e sempre azzeccata – tra gli altri Giancane e Max Pezzali, ma anche Videoclub e Path la cui canzone dà il titolo all’intero lavoro. Diversi, e quasi impossibili da rilevare tutti, sono gli omaggi a film e serie, spesso esplicitamente citate (da Borotalco di Carlo Verdone a Stranger Things, e ancora 2001: Odissea nello spazio, Novecento, Better Call Saul) o a personaggi che la televisione ha trasformato in icone (su tutti, resta celebre il manifesto di “Don Matteo, amico delle guardie”). Il fatto che in Questo mondo non mi renderà cattivo ci siano così tante aperture a coprire il tema principale è un rischio.
Michele Rech non è il guru delle nuove generazioni (e neanche delle passate), né il genio da celebrare, tantomeno il fenomeno da mitizzare: le storie di Zerocalcare hanno senso quando riescono a tracciare una differenza tra ciò che pensiamo di essere e ciò che siamo. In altri termini, esse diventano davvero importanti nel momento in cui concedono una pausa per pensare alle cose che facciamo ogni giorno e al modo in cui le portiamo avanti o tentiamo di farlo; alla cura che abbiamo, o meno, nei confronti delle persone che ci sono accanto e di quelle che resteranno sconosciute; alla mestizia dell’essere umani e alla bellezza dello scoprirsi pacificati in un sorriso perché il nostro mondo si mantiene nel disequilibrio tra miseria e purezza. In questa prospettiva, non è stucchevole la riproposizione continua di quella che è la maggiore insicurezza di Zerocalcare non più personaggio, ma persona: non riuscire sempre a rispettare la triplice regola aurea che Sarah gli ha consegnato, cioè “aiutare chi chiede, andare al passo del più lento, non lasciare nessuno indietro”. Il problema è come evitare di dimenticare questi tre gesti in una vita che chiede di essere in grado di sopperire a tutto.
Sovrapponendo la dimensione esterna della realtà alla dimensione interna del personaggio principale, l’animazione di Zerocalcare riproduce l’ordine caotico del mondo in cui niente si ordina secondo la linea temporale in cui a una causa segue un effetto, e così via, e lo fa potenziando il supporto di scrittura proprio dei “disegnetti”. Ci sono tutti gli elementi per poter parlare di una vera e propria innovazione in cui il personaggio entra ed esce da se stesso, ma anche dalla serie stessa, ad esempio nei casi in cui appare l’interfaccia di pausa di Netflix e si produce una forma di interazione che è, contemporaneamente, un’uscita dalla storia e una rottura dello schermo che passa per una sua inevitabile duplicazione. Questo aspetto, così come la trasformazione di alcuni personaggi in animali, è un deterrente per una possibile e totale immedesimazione con quanto accade, certamente contraria a un gesto di autocommiserazione e di passiva accettazione di una sequenza di stati.
Ecco che, quindi, le molte aperture presenti in Questo mondo non sarà cattivo non sono nient’altro che una riproposizione fedele di quanto normalmente accade a un individuo che, mentre lavora, incontra persone, si confronta con esse, riceve confidenze che dimentica presto o conserva gelosamente, ascolta notizie, guarda immagini statiche e in movimento, e tende a dimenticarsi di cosa sia l’esistenza umana, di cosa sia quel senso di vicinanza che dovrebbe sempre imporre come unici doveri quelli di tendere una mano, rallentare, aspettare. Zerocalcare non insegna quando indossa gli occhiali e punta la bacchetta contro la lavagna, ma quando viene redarguito dalle persone che gli sono accanto, perché è così che dimostra quanto sia importante pensarsi in una dimensione plurale. E tutto il resto è una riproposizione delle nostre corse inutili, in gabbia come criceti su una ruota o su un nastro che non ci porta da nessuna parte; non c’è molta differenza quando diventa più importante muoversi piuttosto che fermarsi e prendere coscienza di quello che si è.
Alla luce di quanto appena detto, dovrebbe spaventarci il consenso unanime con il quale la serie è stata accolta e sul quale lo stesso Zerocalcare, in un episodio, sembra mettere in guardia, menzionando il progetto di un film d’animazione finanziato da un produttore che lo sprona “a unire e a non dividere” – una perifrasi per invitarlo a non prendere esplicitamente posizioni politiche in contesti pubblici – perché questo è quello che gli riesce meglio, anzi, questo è quello che mette d’accordo tutti. Nondimeno, è attorno a questo aspetto che si condensa la vera potenza di un’opera in grado di dialogare con il presente, non perché incentrata su di esso, ma in quanto criticamente distante dalle logiche che ne regolano le dinamiche di sapere e di potere: sconvolgere il sistema dall’interno, annientarlo restando sul posto, combattere senza cedere alle promesse di una narrazione amichevole e rassicurante da spezzettare in aforismi sul senso della vita. Soprattutto, non dimenticare che Questo mondo non mi renderà cattivo mostra la normalizzazione che il fenomeno della migrazione ha subito nei discorsi, esibendo il modo in cui questo processo continua ad avvenire mentre gli amici che si chiamavano “compagni” sono diventati fascisti (o “nazisti”, per riprendere il lessico di Zero), e tutto scorre nella consuetudine di qualcosa che non è affatto regolare.
I raggruppamenti che fanno riferimento agli stereotipi e agli ideali dell’estrema destra offrono un’alternativa pericolosa a coloro che si sentono emarginati ed esclusi e che, per questo, demandano all’odio il loro disagio. Il personaggio di Cesare esprime chiaramente questa condizione quando Zero, con imbarazzo, prova a chiedergli della sua esperienza in comunità e lui gli risponde che ha deciso di rimanere nella struttura anche dopo la disintossicazione, per altri quindici anni, con la scusa di aiutare gli altri mentre era lì per salvare se stesso dal mondo esterno. Il desiderio di una regola imposta e di una disciplina da seguire sono le necessità che hanno spinto Cesare a preferire una vita controllata da altri, in opposizione all’assunzione di un controllo autonomo della propria esistenza. Lo stesso desiderio, come racconta a Zero, lo ha spinto a fare domanda per entrare nell’esercito e, dopo il rifiuto della candidatura, a tornare nel quartiere in cui, finalmente (almeno dal suo punto di vista), trova delle persone pronte ad accoglierlo in nome di una guerra che non coinvolge mai i veri responsabili.
Per non rischiare di essere travolti dai medesimi meccanismi, in misura maggiore o minore, dobbiamo guardarci dal pericolo di accettare una troppo facile mitizzazione di Zerocalcare per preservare la forza di un messaggio che, nella sovrapposizione con gli intrecci narrativi che formano anche la nostra vita, viene veicolato dagli unici strumenti che possano garantirne la massima diffusione. E imparare a domandarsi, come la serie suggerisce, che fine ha fatto Euridice, senza curarsi del gesto insensato (sebbene ci abbiano insegnato fosse d’amore) di Orfeo; a cercare informazioni sulle trasformazioni della stella cometa dopo il suo passaggio; ad avere il coraggio di imparare a chiedere sempre; infine, ad avere la lungimiranza di essere vicini all’altro, anche quando sbaglia, perché forse è proprio quello il momento in cui ha più bisogno di aiuto. Il gesto finale di Sarah non è la resa omertosa per la pacificazione, bensì la comprensione di qualcosa di cui oggi bisogna prendere atto: dirsi umani non è più una scelta, ma la sola garanzia di sopravvivenza in un mondo che, a partire da ora, non deve renderci cattivi.
Questo mondo non mi renderà cattivo. Regia: Zerocalcare; sceneggiatura: Zerocalcare; character design: Elisa Tulli; direzione artistica: Erika De Nicola; musiche: Giancane; doppiatori: Zerocalcare, Valerio Mastandrea, Silvio Orlando, Chiara Gioncardi, Michele Foschini, Graziella Polesinanti, Sara Labidi; produzione: Francesca Ettorre (Movimenti Production), Magali Fuzellier (Movimenti Production), Giovanna Bò (DogHead Animation), Michele Foschini (Bao Publishing); distribuzione: Netflix; origine: Italia; anno: 2023.