Iniziamo con un luogo comune: ci accorgiamo di possedere qualcosa soltanto quando l’abbiamo persa. L’impossibilità di trovare una giusta corrispondenza fra ciò che chiamiamo o richiamiamo alla memoria e, semplicemente, non appare, parla molto più di quanto vorremmo. In effetti, più di quanto non facciamo per pigrizia, pudore o senso di impotenza. Anche per questo sentiamo di poter descrivere la mancanza soltanto attraverso il racconto di un’esperienza diretta, entrando nel discorso con la spavalda, inevitabile e abusata formula del come quella volta che. In questa espressione, è racchiusa la nostra postura di fronte al ricordo di una privazione: parliamo dell’oggetto che è venuto meno alla nostra invocazione, non della situazione in cui la sparizione avveniva. Poco importa se si tratta di un motorino o di un corpo: quello che conta è che ci siamo accorti di un’assenza, trasferendola – come immagine – nell’accumulo scomposto e terrorizzante che, a poco a poco, la vita nasconde e mette a tacere.
Pur scavando nell’archivio più remoto dei nostri giorni, questo marzo 2020 ha il carattere di evento originario nelle nostre comuni esperienze. Prima di “oggi” non c’è mai stato un “allora” in cui tutti insieme siamo stati costretti a cambiare le nostre abitudini (ecco un altro luogo comune), con il solo scopo di mantenerci in vita. Dalle molte e profonde riflessioni sulla quarantena, sull’epidemia, sul modo in cui tutto si rimetterà in moto alla fine dell’emergenza, abbiamo imparato che siamo al mondo come esseri fragili, esposti, guardinghi, impreparati, solidali, arrabbiati, sconsiderati, allenati, spaesati. Tuttavia, restiamo sempre quegli abitanti – perlopiù inconsapevoli – di un mondo impossibile da contenere se non insieme.
Dunque, se non possiamo instaurare un rapporto con l’altro e non riusciamo nemmeno a operare un confronto con una di “quelle volte che”, cerchiamo conforto in un’altra formula che è la madre di tutti i nostri sogni più leggeri: c’era una volta. Che ci sia almeno una storia a darci la possibilità di capire che non siamo orfani di uno sconfinato tempo senza appigli. Nelle ultime settimane, molti hanno trovato – o ritrovato – la loro storia in Rebibbia Quarantine del fumettista Zerocalcare, una serie animata presentata in anteprima nel corso del programma televisivo Propaganda Live. Meno di cinque minuti a settimana per raccontare i sintomi complessi di un’ipocondria generale.
Ed è proprio la canzone Ipocondria di Giancane feat. Rancore a fare da sigla alla storia. Non a caso, nel videoclip disegnato da Zerocalcare nel 2018, una figura dinoccolata con sopracciglia folte e stempiatura alta, digita speranzosa sulla barra del motore di ricerca “dolore al braccio sinistro” e, cliccando su “mi sento fortunato”, scopre che si tratta di un segnale incontrovertibile di morte. Calcare direbbe: “Devi mori’, stacce”.
Chi non trova una certa familiarità con questa disperata e ridicola investigazione sui dolori della carne che si riducono a un nulla, a una proiezione di un pensiero indicibile di disastro imminente? Ecco, ora nel disastro ci siamo dentro e non abbiamo più bisogno di ascoltare i nostri segnali. Soggetti medicalizzati (o oggettivati dalla medicalizzazione) ci auguriamo di non dover tossire mai, altrimenti la risposta di Google sarebbe un’altra volta apodittica nella sua apparizione: Coronavirus. Zerocalcare inchiostra la vita strana di questi tempi e la trasforma nel racconto della privazione che riguarda tutti. A margine degli slogan televisivi, delle canzoni sui balconi e dei cartelloni con gli arcobaleni, c’è una vita di mezzo, quella che non appartiene al dramma di chi passa ogni giorno negli ospedali e di chi necessariamente si affida a una macchina per continuare a vedere il petto che si muove ancora, su e giù. È la vita di tutti, la mediocre e banale esistenza di chi ha il privilegio di stare a casa: il distillato delle “macerie” che abbiamo accatastato nei giorni passati.
Ecco perché nel primo episodio di Rebibbia Quarantine, ci riconosciamo nelle file per strada, fuori dai supermercati, perché ormai “si entra contingentati”: riascoltiamo l’eco di quel signore che ha minacciato di denunciarci per tentato omicidio se ci fossimo avvicinati troppo, il sospetto che il “pischellone” sia stato affittato dalla signora anziana “pe’ zompa’ la fila”. Ancora, ripensiamo agli appelli dei personaggi famosi che invitano a restare a casa e li mettiamo a confronto con la testimonianza dell’“amica teiera” che vive in 20 mq, con la nonna, il padre, la madre e il fratello alcolizzato. Poi, la fase di bilancio nel secondo episodio: una settimana dopo ne abbiamo tutti già abbastanza (per edulcorare i termini).
Zerocalcare appunta tre fenomeni fondamentali: il ritorno in auge del noto “demone della reperibilità” che, ora, ti ha tolto ogni scusa e ti costringe a rispondere al telefono, senza alternative o giustificazioni plausibili; i meme che non fanno più ridere; la vita che si frammenta sempre di più nei confini squadrati delle nostre città. Su tutto, la disperazione per qualcosa di cui è impossibile vedere la fine e la certezza che anche per “annatte a butta’ dar ponte d’Ariccia” ti servirebbe l’autocertificazione. Iniziamo tutti a sentire l’angoscia di cosa saremo diventati a fine quarantena, quando torneremo a vivere in quel groviglio di giorni confusi di cui ci eravamo avvolti. Riusciremo a resistere alla tentazione di sciogliere la matassa ora che abbiamo il filo tra le mani? Che cosa faremo, ora che ci siamo accorti di essere un corpo di “cocci”?
I cocci. Nel terzo episodio, Calcare si ferma di fronte allo specchio e, nel riflesso, trova la forma di tutto ciò che si ferma in gola, troppo timoroso per avere la giusta forza per approdare alla lingua: un chiodo trafigge il collo in senso orizzontale. Lì, sono bloccate le parole che dicono che siamo soli da sempre e che, adesso, non potremo più negarlo a noi stessi. Senza l’epidemia, che scusa avremo per non rimetterci all’altro? L’immagine sparisce, rimane soltanto la distesa di case in cui siamo ancora protetti.
Zerocalcare ha chiuso la prima prova di un progetto (anticipato in altre occasioni nella forma di un’intenzione e preceduto da altri contributi in forma animata) che ha preso una concretezza inaspettata in questa circostanza. Il c’era una volta ha trovato in Rebibbia quarantine una nuova modalità di racconto che ben si è adattata alla forma emergenziale perché ha abbracciato il carattere universale della narrazione, senza trascurare l’esperienza individuale. In altri termini, il fatto che nel fumetto ci sia la riproduzione fedele di quel corpo che riconosciamo come il corpo di Michele Rech aka Zerocalcare ci ha permesso di avvicinarci di più a quel senso di umano ignoto che non ci appartiene ancora e che, tuttavia, ritroviamo “a cocci”, in quei pensieri che mai avremmo avuto la possibilità di ascoltare nella vita reale. In fondo, è anche questa la differenza tra un personaggio e il suo creatore: Michele è altro rispetto a Zerocalcare, lo ripete spesso o, quantomeno, ogni volta che ne ha l’occasione. Eppure, è anche il suo personaggio. Così siamo noi, individui scissi fra ciò che diciamo e ciò che pensiamo, con un perenne e multiforme filtro sugli occhi che oggi è il filtro della quarantena.
Resta una cosa da fare: capire, sin da ora, che il racconto di noi è sempre per l’altro, che noi stessi siamo sempre per l’altro. In ogni occasione, nonostante tutto. Soltanto così sapremo contenere la forza dirompente del fallimento che quotidianamente occultiamo. Proprio come quella volta che Zerocalcare era andato a fare la spesa durante il coronavirus e, mentre provava ad aprire una busta di plastica per insacchettare le zucchine, si è incartato.
Riferimenti bibliografici
Zerocalcare, Un polpo alla gola, BAO Publishing, Milano 2012.
Id., Dimentica il mio nome, BAO Publishing, Milano 2014.
Id., L’elenco telefonico degli accolli, BAO Publishing, Milano 2015.
Id., Kobane Calling, BAO Publishing, Milano 2016.
Id., La profezia dell’armadillo. Artist edition, BAO Publishing, Milano 2017.
Id., Macerie prime, BAO Publishing, Milano 2017.
Id., Macerie prime – Sei mesi dopo, BAO Publishing, Milano 2017.
Id., La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, BAO Publishing, Milano 2019.
Rebibbia Quarantine. Zerocalcare (Michele Rech); Italia; anno: 2020.