Tra il dicembre 2010 e la primavera del 2011, l’artista tedesco Anselm Kiefer è stato invitato dal Collège de France di Parigi a ricoprire la cattedra di Creazione artistica. Subito dopo la fine del corso, le lezioni sono state raccolte e pubblicate in francese per Éditions du Regard. Sempre di più, chi si interessa all’arte e alla cultura visuale si trova a dover leggere in francese, inglese e tedesco: sono alti i costi di una traduzione e ancora troppo di nicchia il mercato italiano della teoria delle arti e dei visual studies. Ma ecco che, nel corso degli ultimi mesi, Feltrinelli ha dato alle stampe un’edizione italiana del volume di Kiefer, tradotto da Deborah Borca, con un’introduzione di Gabriele Guercio.
I diversi capitoli del libro corrispondono alle lezioni parigine e restituiscono la vastità dei riferimenti storici e concettuali che caratterizzano il lavoro di Kiefer, quantomeno a partire dagli anni sessanta del Novecento: dal passato traumatico della Germania alle forme di rielaborazione e strumentalizzazione della mitologia a fini politici; dal rapporto tra le arti – su tutte: poesia, pittura, architettura – al problema della creatività artistica, considerato nei suoi risvolti fisici e metafisici; dalle pretese degli uomini di indirizzarsi verso un esito di progresso alle ragioni della storia naturale, che racconta le trasformazioni microfisiche di soggetti e oggetti.
La lettura è intensa e appassionante, piena di aporie rivendicate: «Ogni tentativo di definizione si sgretola non appena viene a contatto con il suo enunciato, proprio come accade per l’arte, che non smette di oscillare tra perdita e rinascita» (p. 19). Ma è forse proprio grazie a frasi come questa che Kiefer scongiura, almeno in parte, il rischio dell’assertività – che caratterizza molta letteratura artistica – contribuendo a rilanciare alcune domande che hanno una loro importanza nel dibattito storico e teorico, ma anche questioni tutto sommato inedite, scarsamente affrontate. Domande e annotazioni attorno alle quali si sviluppa questa lettura: non esattamente una recensione, quanto una digressione su alcune tematiche suscitate dal libro stesso.
La prima nota di lettura riguarda il rapporto tra arte e teoria: la continua, apparente, elisione tra chi l’arte la fa e chi l’arte la pensa. Di fronte a questa raccolta di lezioni, ha senso concepire una piena separazione tra l’atto del dipingere o modellare e l’attività storico-critica? L’intervista a fine contestualizzante, la recensione e la storicizzazione sono le sole forme di incontro tra la creatività artistica contemporanea e le discipline accademiche che se ne prendono cura? O forse l’enorme consapevolezza espressa nelle lezioni di Kiefer costituisce un risvolto – la variante letteraria – di un’attitudine “teorica” che accompagna e caratterizza da sempre la sua produzione nel campo delle arti plastiche? Non sono forse le lezioni tenute al Collège de France la riprova di una circolazione del pensiero teorico attraverso forme espressive diverse, ovvero del fatto che Kiefer è da sempre e comunque un produttore di “oggetti teorici”, per riprendere una nozione cara a Hubert Damisch?
Da tale punto di vista, questo saggio di Kiefer costituisce l’occasione per assumere piena consapevolezza della necessità di un confronto tra diverse forme di espressione a carattere sperimentale – chi fa un quadro e chi scrive, chi realizza una scultura e chi tiene una conferenza – che sia al contempo “disciplinato” e “creativo” – e che si spinga oltre l’idea della sanzione critica e la pratica del giudizio. La qualità delle lezioni di Kiefer costituisce un caso “raro” se non “unico” negli ultimi decenni, ma testimonia al contempo la relativa permutabilità tra mestieri diversi, tra diverse forme di esprimersi – creare – in nome di un obiettivo condiviso. Si tratta di quello che, con Deleuze – che pure non costituisce un riferimento dell’artista tedesco – potremmo chiamare l’“atto di creazione” che prende forma mediante forme espressive diverse: se l’artista lavora con “linee e colori”, il critico o il teorico lavorano con forme lessicali e sintattiche, mentre i registi cinematografici lavorano con “blocchi di spazio tempo”, e così via.
Il secondo appunto di lettura è magari poco attinente alla lettera del testo di Kiefer, ma esprime l’esigenza di costruire percorsi all’incrocio tra discipline diverse. Esigenza del resto sostenuta da più parti nel corso delle lezioni. A chi si occupa di cinema, una questione del tutto particolare emerge leggendo le duecento pagine del volume. Si tratta dell’assenza di riferimenti alla tradizione del cinema tedesco. Lo stretto legame, ma anche il rapporto in un certo senso mancato, tra la riflessione artistica e concettuale di un artista come Kiefer – ma potremmo aggiungere anche altri grandi artisti tedeschi come Sigmar Polke e Gerhard Richter – e i cineasti cresciuti in Germania subito dopo la fine del Nazismo e che hanno animato, a partire dalla fine degli anni sessanta, il Nuovo cinema tedesco.
Sebbene ancora da esplorare, i punti di incontro sembrano essere molti: la funzione sociale e politica dell’opera d’arte, che si trova nel lavoro degli artisti plastici non meno che in registi come Margarethe von Trotta, Harun Farocki e Reiner Werner Fassbinder; la necessità di riflettere e ricucire un possibile rapporto con il racconto storico e mitologico dopo le strumentalizzazioni della prima metà del secolo, che fa di un regista come Edgard Reitz un imperdibile compagno di viaggio; il rapporto tra storia e natura che resta come bloccato nei viaggi della maturità di Wim Wenders e che trova invece nelle passeggiate e nelle scalate di Werner Herzog il suo punto di massimo sviluppo cinematografico.
Più problematica è senza dubbio l’indagine delle forme di elaborazione del Nazismo, la sua memoria pubblica e il suo radicamento nella quotidianità della vita familiare. Se la figura di Kiefer si mette in luce già nei primi anni settanta grazie a opere che riproducono in modo provocatorio gestualità e simbolismi del periodo nazista, il Nuovo cinema tedesco affronta l’argomento traumatico per eccellenza con qualche anno di ritardo e attraverso modalità molto diverse tra loro: da Hitler, un film sulla Germania (1977) di Hans-Jürgen Syberberg a Germania, pallida madre (1980) di Helma Sanders-Brahms.
La terza nota di lettura, riguarda un movimento – pratico e teorico al contempo – che attraversa le lezioni di Kiefer e che, in qualche modo, sembra riferirsi all’enigmatica frase che dà il titolo al libro.
Non rimarrà stupito, chi conosce la sua arte, di sapere che le ultime due lezioni parigine si sono in realtà tenute presso i suoi atelier/installazioni di Croissy e Barjac dove, dopo una breve introduzione da parte dell’artista stesso, gli uditori/spettatori sono stati invitati a muoversi liberamente: «Mi piacerebbe che passeggiaste qua e là per La Ribotte, senza idee preconcette, andando e venendo liberamente, a vostra discrezione» (p. 196). Si tratta di uno spostamento fisico al quale è sottoposto l’uditorio del Collège de France dopo le prime sette conferenze. Come se, a un certo punto, le pareti di una stanza chiusa non bastassero più. Tutto questo, non con la pretesa di confrontarsi con qualcosa come la “realtà” o un generico “mondo esteriore”. Piuttosto, tale gita esprime l’esigenza di sottoporre la riflessione teorica, sviluppata nella prestigiosa istituzione parigina, a una sorta di prova o, quantomeno, a un confronto con la forma espressiva della pittura, con quella dell’architettura e della scultura, con la loro teoricità immanente.
Ma quello che emerge chiaramente, conferenza dopo conferenza, pagina dopo pagina, e che trova massima esplicitazione nell’uscita dalla sala del Collège de France, è anche e soprattutto la capacità da parte di Kiefer di mettere in tensione, facendo agire l’uno sull’altro, “ambienti mediali” e “media ambientali”. La sua concezione “ambientale” delle opere d’arte – il fatto che i suoi stessi atelier possano essere concepiti come ambienti artistici dei quali è possibile fare esperienza – si sviluppa a partire dalla consapevolezza che l’ambiente naturale costituisce a sua volta un medium, dove gli elementi naturali e gli agenti atmosferici sono concepiti tanto in quanto strumenti di trasformazione della materia che in quanto forme di costruzione di un habitat. Una frase, sottolineata con particolare energia durante la lettura, sembra esprimere in sé tutta la potenza teorica e politica del pensiero di Anselm Kiefer:
Sono cresciuto sul bordo del Reno, vicino alla frontiera con la Francia. Ogni anno, a primavera, con lo scioglimento della neve, il Reno esondava e riempiva la nostra cantina. Mi ricordo l’emozione che provavo scendendo giù in cantina, quando scoprivo l’acqua del fiume di frontiera nella casa di famiglia. […] Dove si situava allora il confine? Dove si situano i nostri confini? (p. 55).
E, ancora, conclude riferendosi alla poesia di Rimbaud e Valéry: «L’illusione del confine, ad esempio, ci nasconde il fatto che siamo irrimediabilmente perduti. Il ritmo della poesia ha proprio questo di prodigioso: ci consola là dove siamo inconsolabili. Ci offre la bellezza senza localizzarla» (p. 56).
In che senso, allora, l’“arte sopravviverà alle sue rovine”? È del tutto inutile cercare una risposta semplice nelle pagine di questo libro. Kiefer stesso – che ammette di non ricordare se tale frase è una citazione oppure una sua invenzione – pare contraddittorio a tal proposito. Dalla prima all’ultima conferenza, l’artista tedesco, non smette mai di riferirsi a quella che si potrebbe definire una non indifferenza della natura al processo artistico e viceversa, arrivando a condividere con il pubblico e con i lettori i dettagli della sua pratica che consiste nel sotterrare quei dipinti che non ritiene ancora pronti per essere finalizzati, ma che sono passibili di essere ripresi anni dopo: «mi affido alla natura, non perché porti a una redenzione, ma perché mi aiuti a completarlo» (p. 33).
Dalla prima all’ultima pagina, Kiefer non smette di ribadire una concezione processuale e aperta dell’opera d’arte, sottolineando il profondo legame tra la creatività e i processi atmosferici e biologici. L’arte è ciò che resiste – «soltanto nell’arte ho fede, senza di essa sono perduto» (p. 20) – proprio nella misura in cui evolve, anche quando non ce ne accorgiamo, e (quasi) indipendentemente da chi l’arte la fa e da chi l’arte la giudica, ne scrive, ne parla. Evolve «a ritmo continuo, potrei dire quotidianamente» (p. 22).
Riferimenti bibliografici
D. Arasse, Anselm Kiefer, Editions du Regard, Paris 2007.
G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione, Cronopio, Napoli 2003.
L. Venzi, a cura di, Nuovo cinema tedesco (Junger/Neuer Deutscher Film). 17 studi, Ente dello Spettacolo, Roma 2014.