Un 21 Aprile del 1937, Natale di Roma, al Teatro Argentina si rappresenta Natale in casa Cupiello, in platea siede un giovanottino riminese, si chiama Federico Fellini:
Io ho visto i De Filippo a Roma intorno al 1937, un 21 Aprile. Lo ricordo perché la città era invasa da cerimonie fasciste: dovunque ci si scontrava con la paccottiglia esaltata e delirante delle feste fasciste. Il pomeriggio di quel giorno andai all’Argentina, e vidi per la prima volta i De Filippo che raccontavano di un’altra Italia, un’Italia abissalmente lontana da quella che stava immediatamente fuori dal teatro. [...] Nella platea c’era moltissima gente in divisa […] e questo pubblico, che fino a un momento prima aveva marciato con passo così guerriero, tutto vibrante di canti bellici, tutto compreso del suo glorioso destino, ora se ne stava a guardare un interno miserabile, a contemplare personaggi incredibili, gonfi di follia, di egoismo, di alienazione, intrisi di miseria e di malattia. Una visione delirante, addirittura conturbante, cui si giungeva però attraverso i modi della risata e della farsa. E quella platea applaudiva: erano in divisa ed applaudivano, nonostante fossero di fronte a un’immagine completamente diversa da quella che presentava il regime. La prima apparizione dei De Filippo nella mia vita divenne un contraltare, un rovesciamento della pagliacciata che infuriava tutto intorno (Giammusso 2004, p. 154)
È un ricordo che Fellini scrive mezzo secolo dopo nel programma di sala de La Grande Magia, messa in scena da Strehler al Piccolo Teatro di Milano nel 1987, alquanto “felliniana” (quell’albergo termale e quell’illusionista che sembrano usciti da 8 e ½) che Eduardo non poté vedere. E quel testo, in cui una “scatola magica” racchiude un’illusione, la parvenza di un corpo amato e scomparso (la moglie del protagonista, Calogero Di Spelta, che, nel gioco dell’illusionista Otto Marvuglia viene “racchiusa” in una piccola scatola, avvolgendo in una illusione ipnotica lo sprovveduto marito, in realtà vittima del tradimento della moglie, fuggita con l’amante) fu scritto nel 1948 da un Eduardo assediato da fantasmi, sogni e illusionismi (è lo stesso anno de Le voci di dentro, e due anni prima era nato Questi Fantasmi).
Una commedia allora incompresa che oggi ci appare come una grande riflessione in cui il meccanismo fantasmatico del cinema prende possesso della scena ( l’insistere sulle “immagini” che nell’illusione perpetrata da Marvuglia su Di Spelta si sostituiscono alle cose reali), e lo fa con una visionarietà che supera a piè pari tutti i neorealismi coevi e che anticipa il paradigma amaro dell’illusione e della memoria che sarà di Fellini solo diversi anni dopo. Come già era avvenuto per la scena del balcone dei Fantasmi, nella Grande Magia Eduardo adotta sulla scena una figura filmica come il “fuori campo”: Otto Marvuglia ipnotista e mago da varietà (altra incarnazione, più “filosofica”, del “gogoliano” Sik-Sik) sovrappone allo sguardo di Calogero Di Spelta, lo sguardo sperduto di un marito tradito, il velo dell’illusione, che rafforzato dalla credenza, dalla fede, rende lo schermo del tempo e dello spazio uno spazio reale, incarnato, materializzato, sovrimpresso come una pellicola per tutta la vita del povero Calogero. E ciò avviene in una scena chiave attraverso uno sguardo rivolto verso la platea, nel fuoricampo di coloro che a loro volta con mille occhi guardano il gran gioco, la grande magia della scena.
Otto (a lenti passi lo costringe ad oltrepassare il limite del boccascena) – Hai visto? Se ci fosse il muro saremmo urtati, invece noi siamo passati benissimo. Che significa un muro? Che cos’è un muro se non un gioco preparato? Dunque, devi essere d’accordo con me che non esiste. […] (mostrando ancora la platea) E quello è mare!
Nella versione televisiva del 1964 Eduardo regista (che si riserva la parte del maestro di scienze occulte Marvuglia) ricorre volutamente all’artificio cinematografico per questa scena: sguardo a filo macchina di Calogero (Giancarlo Sbragia) e in controcampo il personaggio di spalle contro le onde del mare su cui luccica il sole e, a stacco, quel mare che diventa folla vociante (con un sonoro diffuso in diretta dal mago), un “mare di gente” che accorre ai giochi e agli esperimenti di ben altri illusionisti, possessori e persuasori occulti di ben altri “terzi occhi”.
Anche nei film di Fellini (da Amarcord, a Casanova, a E la Nave va) il mare, il gran mare amniotico, è il luogo profondo dell’inconscio, cifra dichiaratamente illusoria, con i suoi grandi fogli di plastica trasformati dalla luce. È singolare che il ricordo che Fellini ha di Natale in casa Cupiello si declini in una sorta di allucinatorio cortocircuito tra il “presepe” miserabile e folle dell’interno edoardiano e la pompa funzionale della parata fascista, e da ciò non emerge tanto il dato neorealistico di Eduardo, su cui molto si è equivocato, quanto proprio la verità che traligna attraverso l’illusione, che nel terzo atto appare sotto gli occhi di Luca Cupiello, ancora una volta fuori campo, nella visione di un presepe ultraterreno che paradossalmente trasforma in extremis sotto forma allucinatoria la realtà dei conflitti familiari.
Questo survoltaggio che sovraimprime al dato realistico quello onirico, trasfigurando la miseria umana in una sorta di riscatto nella rêverie è forse ciò che incrocia il mondo eduardiano, il suo “commedico” scettico, a quello felliniano, immerso nella “gran commedia” dell’illusione. Da La strada a Cabiria a Otto e mezzo è il potere animico dell’illusione a far emergere la verità profonda dei personaggi candidi, degli innocenti o degli amareggiati dalla vita (altrettanto avvolti da un alone allucinatorio, e insieme implicati in un sogno a occhi aperti, o in confidenza con l’aldilà, come i personaggi eduardiani, da Sik-Sik a Cupiello, da Pasquale Lojacono a Alberto Saporito, da Calogero Di Spelta fino a Guglielmo Speranza). In Fellini spesso è proprio un illusionista, quello che ipnotizza Cabiria o che legge nel pensiero di Guido, la sua “Asa Nisi Masa” (cioè la sua anima) o un acrobata matto, come quello che incanta Gelsomina, a innescare un processo di disinganno, di anamnesi, di disvelamento della verità profonda, che avviene sempre al limitare di un “altro regno”, attraverso un cerimoniale o un rituale simbolico, in cui l’officiante appare come uno psicopompo.
Tutto ciò sembra trovare conferma nell’esempio illuminante della collaborazione tra Eduardo e Fellini: il film Fortunella del 1958, diretto da Eduardo e scritto da Fellini con Pinelli e Flaiano interpretato dalla Masina con Sordi e da Eduardo stesso nel ruolo rivelatore del capocomico di una compagnia di guitti. Il film, altrettanto incompreso che la Magia di dieci anni prima, rimette al centro la potenza dell’illusione.
Fortunella apparentemente fu la riproposizione del triangolo Gelsomina/Matto/Zampanò, nei personaggi della piccola stracciona, venditrice di cianfrusaglie, convinta di essere la figlia naturale di un Principe, di Peppino un personaggio levantino, nato stanco, infido e indolente, maligno e approfittatore, dissimulatore e affamato (di ascendenza prettamente scarpettiana, di cui Sordi traccia un ritratto sinistro e petroliniano), e del professor Paganica, nobile spiantato e alcolizzato, istrione e idealista. Ma la triade simbolica e clownesca della Strada, in questo film (in cui il binomio De Filippo/Fellini sprigiona una strana alchimia all’insegna non solo della favola ma anche di una riflessione metateatrale), viene in un certo senso ribaltato su un piano che è quello della messinscena e sulla costruzione della gag. André Bazin lesse il film in tal senso sui Cahiers:
[…] Vorrei tuttavia difendere il film di Eduardo De Filippo […] Il napoletano ha spostato il centro di gravità del film dalla poesia alla fantasia e, soprattutto, dalla sceneggiatura alla messa in scena, o più precisamente, alla direzione degli attori. La storia immaginata da Fellini allora è diventata nient’altro che una incessante invenzione di gag per fornire agli eccellenti interpreti, diretti in modo meraviglioso, l’occasione di esibirsi in pezzi di bravura, spettacolarmente plateali o sommessi, che costituiscono comunque una festa per gli occhi e per lo spirito (Bazin 1958, p. 62)
Il finale suggella la dicotomia e insieme la simbiosi di credenza e illusione, quando, annunciata dagli squilli di tromba, sullo scalcinato palcoscenico Fortunella fa la sua apparizione con scettro e corona di cartone, assisa in trono come una Basilissa bizantina. La luce trasfigurante della ribalta, e l’epifania del palcoscenico, fa pensare a quanto Eduardo ricorda e racconta del suo primo ingresso in scena a sei anni, il 6 febbraio del 1906, al Teatro valle di Roma, nel ruolo del giapponesino sulle spalle di suo padre Eduardo Scarpetta travestito da geisha nella parodia dell’operetta La Geisha di Sidney Jones:
Indossavo un minuscolo kimono a fiori dai colori vivaci che avevo visto cucire da mia madre qualche giorno prima. Improvvisamente mi sentii afferrare e sollevare in alto, di faccia al pubblico, con la luce dei riflettori che mi abbagliava e mi isolava dalla folla. Chissà perché mi misi a battere le mani e il pubblico mi rispose con un applauso fragoroso […] Quella emozione, quell’eccitamento, quella paura mista a gioia esultante…io le provo ancora oggi, identiche, ad una prima rappresentazione, quando entro in scena (Leonardi 2007, p. 20)
“Dammi un raggio di luce”: sono le parole del produttore che Fellini ricorda inquadrando il gran teatro vuoto di Cinecittà in Intervista, ed è un raggio di luce nel finale delle Voci di Dentro quello che filtra dai finestroni dell’antro buio dei Saporito. I due maghi, Eduardo e Fellini, sanno come illuminare le profondità delle nostre anime.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Note sur Fortunella, in “Cahiers du Cinéma”, n. 89, 1958.
E. De Filippo, Cantata dei giorni dispari, a cura di A. Barsotti, vol.1, Einaudi, Torino 2014.
M. Giammusso, Vita di Eduardo, Elleu Multimedia, Roma 2004.
A. Leonardi, Tempeste. Eduardo incontra Shakespeare, Colonnese, Napoli 2007.
Eduardo De Filippo, Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984.