Ancora una volta Marco Bellocchio sceglie una vita per raccontare un pezzo della nostra storia. E ancora una volta lo fa costruendo attraverso le immagini un intreccio di biografie e storia, media e corpi. Mettendo la storia in controluce, Bellocchio parte dai contorni di una vicenda nota – in questo caso l’ingiustizia di cui fu vittima Enzo Tortora – e procede attraverso un progressivo lavoro di stratificazione di volti e immagini, verità e finzione, che sembrano volerci far intravedere una verità, scomoda e coraggiosa, che ha ancora bisogno di essere raccontata. Il passaggio all’82esima edizione del Festival di Venezia dei soli primi due episodi di Portobello, che segnerà il debutto in Italia della piattaforma di HBO, non ci può dire tutto sullo sguardo dell’autore su questa vicenda, oggi considerata come uno dei momenti più bui della nostra storia e di quel rapporto tra giustizia e cittadini che ancora è al centro del dibattito politico e popolare. Ma ci dice molto sul modo in cui il cinema rileggendo il passato può parlare del presente.
Il primo episodio serve a raccontare il mondo della serie, che nella sovrapposizione tra storia e finzione vuol dire quello spaccato d’Italia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Bellocchio sceglie primariamente la via della riproposizione finzionale (tra inserti e innesti) di alcune puntate celebri della trasmissione che superò ogni record di ascolti, rendendo Tortora il volto televisivo più noto dell’epoca; con un continuo gioco di raddoppiamenti dell’immagine, la serie sottolinea il carattere mediato e immediato allo stesso tempo di quello storico programma. Il pappagallo e il suo presentatore arrivano ovunque, nei salotti borghesi, come in quelli popolari, fin dentro alle carceri, attingendo a storie e personaggi di tutti i giorni dell’Italia normale, piccola, bizzarra, divertente, ingegnosa, l’Italia della provincia che ritrova sé stessa nel piccolo schermo tra evasione e speranza. Il presentatore arriva finanche tra le strade piene di macerie dell’Irpinia devastata dal terremoto e ancora in attesa di essere ricostruita, nonostante i cinquantamila miliardi promessi dalla politica. Da qui parte la vicenda, narrativa e giudiziaria: Giovanni Pandico (Lino Musella), affiliato della Nuova Camorra organizzata, invia dei centrini alla trasmissione, accompagnati da lettere di ammirazione per il conduttore. Si tratta di un personaggio che potrebbe far parte di quella galleria di maschere del grottesco a cui Bellocchio ci ha abituato : segretario di Cutolo, Pandico è un uomo di lettere e di onore, che vive in un mondo tutto suo, in cui le sue virtù vengono continuamente sminuite da tutti, da Cutolo come da Tortora.
Il momento dell’arresto, ripreso anche nel teaser di presentazione della serie, è quello in cui il racconto cala la maschera – elemento peraltro continuamente evocato – e mostra esplicitamente il suo nucleo tematico: il caso Tortora rappresenta un dispositivo tragico per raccontare il rapporto tra giustizia, media e politica, rapporto che riaffiora in modi diversi nella produzione di Bellocchio, fin da Sbatti il mostro in prima pagina (1972). Il momento dell’arresto viene preparato attraverso una fibrillante ricostruzione delle ore precedenti, scandite dal tempo che passa e da cui emerge l’angoscia umana di chi è sprofondato in un incubo: prelevato alle 4.30 di notte e portato in caserma, Tortora viene trasferito in un carcere a furor di telecamere in tempo per l’edizione del telegiornale delle 12.
Così comincia un’altra storia, quella del rapporto tra lo stato e un suo cittadino accusato, ma ancora in attesa di giudizio, mentre il mondo fuori ha già emesso il verdetto. Le manette, le foto all’arrivo in carcere, le perquisizioni e la consegna dell’orologio sono tutti gesti che svuotano il volto televisivo, l’icona, e Tortora, che da procedura si trova a ripetere continuamente il suo nome e cognome, diventa detenuto tra gli altri detenuti, in una cella minuscola in cui tutti sono innocenti, come gli dice all’arrivo un compagno. Sul finale del secondo episodio il dialogo rivelatore, tra lui e un uomo condannato per un omicidio politico, che gli spiega che il vero motivo per cui è finito in carcere è che serve un diversivo a quella spartizione tra democristiani e comunisti post-terremoto, una variazione alla soluzione trovata per Moro.
Ecco allora che Gifuni, prima Moro in Esterno Notte, ora Tortora, è l’elemento di congiunzione tra questi pezzi di storia del nostro paese, una sorta di fantasma che ritorna uguale e diverso ad incarnare la vittima sacrificale su cui si tiene l’equilibrio di una volontà politica che non fa distinzione di colori. La vicenda di Tortora, allora, ricostruita, attraverso un lavoro di archeologia del mezzo televisivo – di cui si segna finanche il passaggio dal bianco e nero al colore – acquista esemplarità, universalità e per questo ci parla dell’oggi: sventurata è quella terra che ha bisogno di vittime, oltre che di eroi.
Portobello. Regia: Marco Bellocchio; sceneggiatura: Marco Bellocchio, Stefano Bises, Giordana Mari, Peppe Fiore; fotografia: Francesco Di Giacomo; montaggio: Francesca Calvelli; interpreti: Fabrizio Gifuni, Lino Musella, Barbora Bobulova, Romana Maggiora Vergano, Davide Mancini, Federica Fracassi, Carlotta Gamba, Giada Fortini, Massimiliano Rossi, Pier Giorgio Bellocchio, Gianfranco Gallo, Alessandro Preziosi, Alessio Praticò, Francesco Russo, Gennaro Apicella, Luciano Giugliano; musiche: Teho Teardo; produzione: Our Films, Kavac Film, HBO Original, ARTE in collaborazione con Rai Fiction, The Apartment Pictures, Fremantle company; origine: Italia, Francia; durata:120’; anno: 2025.