Quasi non esiste “realismo” senza aggettivi o senza suffissi a precedere o seguire, tanti ne sono gli esempi, le declinazioni, che variano come variano società umane e culture, epoche e latitudini geografiche. Tra i tanti nomi che il realismo ha assunto, ve n’è uno in cui si scoprono legati Caravaggio e Manzoni de I promessi sposi, come emerge dallo studio di Daniela Brogi Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo (Carocci 2018).
E, a proposito di nomi propri che accomunano: i protagonisti della prima stesura del romanzo di Manzoni si chiamano Fermo e Lucia, e così i genitori di Michelangelo Merisi da Caravaggio, come risulta dal recente recupero dell’atto di battesimo del pittore. Alle nozze dei due, tra i testimoni figurava il marchese Francesco Sforza, la cui famiglia, protetta dagli stessi Borromeo così centrali nella vicenda de I promessi, non era estranea a minacce di annullamenti di matrimoni, vicende romanzesche di doti non rilasciate e fosche storie di figli illeggittimi.
Le assonanze, benché suggestive, tra l’opera di Manzoni e la biografia di Caravaggio e il suo mondo, non dissimile da quello di Renzo e Lucia (pure lombardo e post-tridentino), non bastano da sole a render conto dell’universo del romanzo. Potrebbero, però, come sostiene Daniela Brogi, far da suggestione per interrogare in una nuova prospettiva, uno dei testi fondativi della letteratura italiana, alla cui idea di realismo proprio la pittura del Merisi può fare da termine di confronto e metro di comprensione, tante sono le sostanziali affinità tra i due cosmi, e più profonde. Un romanzo per gli occhi si propone infatti di «Rileggere I promessi sposi […] in una prospettiva più sensibile ai codici della cultura visuale», indagandone il «“realismo visivo”» (ivi, p. 10).
Si tratta di una lettura nuova del romanzo-cardine dei primi vagiti dell’Italia Stato-Nazione, fatta ai tempi di scenari postnazionali, ma che non suona come rimaneggiamento o forzoso aggiornamento al contemporaneo, né tantomeno come ulteriore musealizzazione di una tradizione. Semmai, vuole ripensarla, nel senso proprio di pensarla di nuovo, interrogarla anche alla luce caravaggesca, e interrogarne il “realismo”, demone che pervade tanta tradizione culturale (pittorica, letteraria, cinematografica) italiana. Ma che realismo è il realismo visivo de I promessi sposi, e perché si può coglierlo da una prospettiva “caravaggesca”, e, in definitiva, di cosa parla? L’operazione di Manzoni, che col romanzo rende protagonista le “genti meccaniche e di piccol affare”, cioè un’umanità altrimenti in ombra, marginale e fuori dalla storia ufficiale, non è in fin dei conti diversa da quella attuata secoli prima dal pittore, dando luce a una simile umanità, fatta di “ultimi” in senso evangelico.
È dunque un dare realtà, dare visibilità, a un mondo altrimenti fuori da storia e visibilità, un mondo popolare che interessa tanto Manzoni come Caravaggio, soprattutto di illetterati (contro i quali, infatti, a memoria di lettore, un Don Abbondio o un Azzeccagarbugli innalzano un muro di latinorum per tagliar corto, e tenerli a distanza). Individui di condizione umile, allora, che si servono «delle parole non per pensare ma per guardare la realtà […] per decifrarla sotto forma di sguardi, di gesti, di “aspetti” e di “apparenze”» (ivi, p. 34). Proprio il romanzo, più di altre forme letterarie, consente di portare alla luce questi mondi “non scritti” e relegati sullo sfondo della storia. Li rende, invece, aggettanti, come la canestra di frutta che nella Cena in Emmaus del Caravaggio sporge fuori dal bordo del tavolo, proiettandovi la propria ombra.
Brogi ricorda per altro che la Canestra di frutta, la più nota natura morta del pittore, era appartenuta proprio al cardinale Federico Borromeo, che nella narrazione manzoniana ha un ruolo cruciale sia in quanto personaggio, sia in quanto il mondo religioso de I promessi sposi è un po’ tutto imbevuto del suo “umanesimo cristiano”, del suo «progetto pedagogico di una cultura popolare fatta di scambi tra racconto, immagine e parola, sotto il segno della fede e della pietà popolare» (ivi, p. 103). Un progetto di cura animarum che, come testimonia la costituzione dell’Accademia Ambrosiana, usa particolare riguardo proprio alla formazione dei pittori, perché con le loro opere veicolino “articoli di fede”, abbandonando scorie manieriste e abbracciando un verbo realista, per cui si crede a un Dio perché lo si vede, fattosi immanente, incarnato tra gli uomini.
È quell’ecosistema di cultura visiva che Brogi ricostruisce e giustamente chiama “costellazione Borromeo”, e che è precisamente lo stesso universo in cui si muovono Renzo, Lucia, e gli altri personaggi, pensando, sentendo e soprattutto vedendo il mondo, gli ambienti e gli oggetti che popolano il romanzo, e che Manzoni rende aggettanti quanto lo è la canestra di frutta del Merisi. Se dunque l’operazione di Caravaggio e più in generale della coeva pittura (lombarda e non solo) mostra una forte affinità con quella del romanzo di Manzoni, è perché la prassi creativa di entrambi si modula secondo un medesimo progetto di realismo cristiano, che molto si alimenta alla costellazione Borromeo.
Realismo (storico) è per Manzoni, allora, anche chiedersi come vedevano i personaggi del 1628, rendendo visibile, nel romanzo, anche il loro vedere, così come nella pittura dell’epoca si rendono visibili (e credibili) la più cupa tavernaccia plebea o il banco di esattore dove un Cristo è sceso tra gli uomini, o addirittura sporgono in primo piano i piedi sporchi di pellegrini (come nella Madonna dei Pellegrini della Basilica di Sant’Agostino in Campo Marzio). Si vede e dunque si crede a una storia, anche nel momento in cui se ne percepiscono con distinto rilievo (aggettanti come nell’arte barocca) gli oggetti che la fanno risuonare per vera (utensili da cucina, scodelle di polenta, ceste di frutta o di panni) di cui è disseminato il testo de I promessi sposi come le illustrazioni che lo punteggiano nell’edizione “Quarantana”, realizzate da Francesco Gonin “sotto supervisione” dello stesso Manzoni.
La descrizione del narratore, pur sapendoli tutt’altro che indispensabili al progresso della vicenda da raccontare, si sofferma su oggetti di uso comune, dettagli spesso (a tutta prima) insignificanti. È un po’ il meccanismo in cui, per Barthes, si sostanzia spesso “l’effetto di reale” (Barthes 1988), colto in quanto è accessorio (il barometro o il pappagallo in Un cuore semplice di Flaubert). Allo stesso modo, il realismo visivo manzoniano non è pura, ingenua mimesis, quanto proprio effetto, ed effetto di una costruzione dove «l’elemento visuale non è solo un codice, ma il principio ispiratore di un orientamento narrativo complessivo» (ivi, p. 77).
Ciò emerge in particolare dall’approfondita analisi che Brogi compie sui capitoli IX e X del romanzo, entrambi incentrati su Gertrude, la monaca di Monza. Che è infatti un personaggio costantemente esposto agli occhi di altri, e la cui volontà è come inesistente se imprigionata nella clausura di altrui sguardi, da quello della famiglia che la decide suora, a quello di Egidio. Nei capitoli in cui si racconta la storia di Gertrude, appare più forte il legame tra l’elemento scritto (già di suo carico di forte tensione visuale) e le illustrazioni di Gonin, in costante dialogo con la scrittura di Manzoni, che del resto pensa e costruisce il proprio lettore (sin da subito: nell’Introduzione) come spettatore. Il lettore è osservatore di un arazzo storico, tramato come romanzo da un narratore filatore come i suoi protagonisti, o il drappo-sipario sollevato nelle Hilanderas di Velázquez o La morte della Vergine di Caravaggio, che invita a farsi spettatori di un tessuto di storia che si vede, e crede.
Riferimenti bibliografici
D. Brogi, Un romanzo per gli occhi. Manzoni, Caravaggio e la fabbrica del realismo, Carocci, Roma 2018.
R. Barthes , L’effetto di reale, in Brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988.
A. Manzoni, I promessi sposi, Rizzoli, Milano 2014.