Nel libro che avrebbe voluto intitolare Storia naturale delle funzioni estetiche (alla fine scelse il più sobrio L’uso estetico del linguaggio), lo scienziato e filosofo Giorgio Prodi (1928-1987) scriveva (nel 1983, con moltissimi anni d’anticipo rispetto al contemporaneo Literary Darwinism):
L’ipotesi di questo libro è che l’attività estetica abbia avuto una funzione determinante nei meccanismi di contatto con il mondo, e costituisca un elemento fondamentale della nostra struttura. Se è così, le varie teorie estetiche esprimono solo il lato pittoresco del problema: la cui origine va ricercata più in profondità, alla radice stessa dell’umanizzazione, nel periodo di formazione della conoscenza e dei linguaggi. Tale ipotesi è quindi saggiata in chiave di storia naturale.
L’idea di Prodi, che percorre tutti suoi libri (ormai introvabili), è che non esista un aspetto della cognizione (cioè l’intreccio mente/corpo) umana che più o meno direttamente non sia riconducibile alla biologia. Queste parole di Giorgio Prodi potrebbero aprire anche l’informatissimo libro di Michele Cometa, Letteratura e darwinismo. Introduzione alla biopoetica (2018), che ricostruisce con estrema cura il vivacissimo dibattitto attuale sui rapporti fra teoria letteraria (e, in senso esteso, saperi umanistici) da un lato, e biologia e teoria dell’evoluzione (Darwin, appunto) dall’altro.
Facciamo prima, però, un passo indietro. Sotto la spinta di quale urgenza nasce un libro che affronta il tema dei rapporti fra poesia e biologia? La sensazione, sempre più forte fra chi si occupa di questi temi, è che sia ormai sempre più difficile (se non sterile) continuare ad occuparsi dei tradizionali temi umanistici senza però collocarli in una adeguata cornice scientifica in generale, e biologica in particolare. In effetti l’immenso rimosso del punto di vista umanistico (umanesimo, in fondo, non è altro che questa rimozione) è che Homo sapiens è un animale, molto particolare se lo compariamo agli altri animali (ma fino ad un certo punto, come mostra in modo evidente il fatto che mangiamo animali e possiamo essere mangiati da altri animali), ma comunque un animale, quindi una massa corporea fatta di carne, sangue, passioni, reazioni istintive, e così via.
Si pensi al libro per certi versi più sorprendente di Jacques Derrida, il teorico del decostruzionismo, quello intitolato L’animale che dunque sono (2006). Derrida, alla fine, si accorge di essere un animale, e che un gatto – il libro parte dalla “scoperta” di una gatta che indifferente lo osserva – è più vicino a lui di quanto avesse mai potuto pensare o credere. Derrida, proprio alla fine della sua vita (e ovviamente non sarà un caso, la morte è decisamente animalesca), si accorge di essere prima di tutto una precaria e fragile massa di carne e sangue, un animale appunto. Ecco, la biopoetica parte dalla stessa scoperta, all’inizio c’è un animale, con una lunga storia naturale alle sue spalle, una storia di cui il sapiens non si rende conto, che tuttavia c’è, e che si manifesta nei suoi affetti e nei suoi comportamenti, come ad esempio quando scrive un romanzo.
Da questo punto di vista, che anche il campo della teoria letteraria finalmente si confronti con la dimensione animale dell’essere umano è davvero una bella notizia: «gli umanisti», scrive Cometa, «farebbero bene a considerare la propria ignoranza, non solo sulla vita delle formiche, ma anche sulle mutazioni – si potrebbe dire genetiche – che l’evoluzionismo ha imposto, spesso silenziosamente e senza che essi stessi se ne rendessero conto, a tutte le scienze umane» (Cometa 2018, p. 13). Il punto è proprio questo: nel mondo delle formiche c’è qualcosa che ci riguarda, qualcosa che continua a mostrarsi anche nelle attività umane più esclusive, come la narrativa. Non è un caso che per Giorgio Prodi la categoria fondamentale per dare conto in modo naturalistico della mente umana (e quindi dei suoi comportamenti) fosse quella della “continuità”, cioè della ininterrotta catena di passaggi (la vita è questa catena) che in fondo unisce anche le formiche alla mente di James Joyce.
Tuttavia, “continuità” – su questo punto il libro di Cometa è molto chiaro – non significa che la teoria della letteratura possa ridursi alla mirmecologia; significa però che lo scrittore, lo stesso geniale James Joyce, non smette di essere un animale (e quindi in qualche modo connesso a quella formica) anche quando scrive Finnegans Wake. Il libro di Cometa mette in guardia contro quello che potremmo indicare come un doppio rischio: ritenere che i saperi umanistici non abbiano nulla da spartire con la mirmecologia (presa come esempio di sapere biologico), pensare che un mirmecologo possa “svelare” la verità della letteratura. Cometa offre anche un ulteriore suggerimento: forse anche il mirmecologo guadagnerebbe qualcosa se cominciasse a pensare che le categorie concettuali che usa nelle sue ricerche hanno una storia, una storia che lui ignora e che tuttavia pensa per lui; una storia che un umanista, invece, potrebbe aiutarlo a vedere. In effetti l’ignoranza è reciproca, come mostrano i tanti libri di “filosofia” che molti scienziati scrivono quando entrano nella terza età; se si vuole dire qualcosa di non scontato su Finnegans Wake è una lacuna non avere letto Le società degli insetti di Edward Osborne Wilson, ma non lo è da meno non aver letto Differenza e ripetizione di Gilles Deleuze per uno scienziato. Gli umanisti hanno molte colpe, ma anche i mirmecologi non sono da meno.
Vediamo ora più da vicino cos’è la “biopoetica” che Cometa propone. In questa parola si condensano tre prospettive principali: «l’idea che esista una poetica negli scrittori che si orienta a temi biologici» (qui il caso del Sistema periodico di Primo Levi è esemplare); «l’idea che si possa costruire una poetologia, un ragionamento teorico sulla produzione letteraria a partire dalle scienze del bios»; «la stretta connessione che nel termine del poiein è classicamente contenuta, tra il fare poetico – la fiction, l’immaginazione, le letterature – e il fare tout court, quello che non si nasconde la propria radice tecnica e materiale» (pp. 47-48). Anche se Cometa non lo dice esplicitamente, è difficile non cogliere la radice filosofica di questa tradizione, quella del materialismo marxista. In effetti cos’è la relazione fra “struttura” e “sovrastruttura” se non appunto la relazione (un tempo si sarebbe detto dialettica, una parola che sembra scomparsa dal dibattito contemporaneo; non per questo il fatto della dialettica ha smesso di esistere) fra un certo fenomeno “culturale” e le sue indispensabili “basi materiali” (quelle del titolo di un altro importante libro di Giorgio Prodi, Le basi materiali della significazione, del 1977)? Tornando a James Joyce: può scrivere Finnegans Wake solo perché ha un corpo, mani e occhi, cervello, un peso, una particolare storia naturale. Senza questa “radice tecnica e materiale” Finnegans Wake non si sarebbe potuta scrivere.
Allo stesso tempo, e qui si apre la vera sfida per ogni “biopoetica”: che cosa aggiunge, questa prospettiva, a quella tradizionale? Che cosa ci fa vedere, che prima non avevamo visto, o meglio, che prima – quando il mirmecologo non si sognava nemmeno di dialogare con il critico letterario, e quest’ultimo guardava con ignorante presunzione lo studioso di scienze naturali – non avremmo potuto vedere? In effetti, una volta ammessa l’urgenza di un confronto esplicito con i saperi empirici che sempre di più si avventurano nei campi ancora solo pochi anni fa di esclusiva competenza umanistica, la vera sfida diventa questa: qual è il di più di comprensione che lo scienziato cognitivo, il neurologo, il mirmecologo (!), aggiunge al tradizionale sapere umanistico?
Faremo un solo esempio, tratto dal libro di Cometa, che tuttavia ha implicazioni molto generali, relative al rapporto da costruire fra scienze empiriche e saperi umanistici. Il caso della teoria di Ellen Dissanayake del making special, cioè il comportamento umano che secondo lei sarebbe alla base dei fenomeni estetici e artistici (un “rendere speciale” che in realtà non sembra molto diverso dalla teoria della pertinenza, quella inaugurata dal celebre libro del 1986 di Dan Sperber e Deirdre Wilson, La pertinenza). Riportiamo una citazione di Dissanayake a sua volta riportata nel libro di Cometa: «la mia nozione di arte come comportamento si basa sul riconoscimento di una tendenza comportamentale fondamentale che io sostengo sia a fondamento delle arti in tutte le loro diverse e differenti manifestazioni […]. In qualunque cosa siamo soliti chiamare arte, è tacitamente e apertamente riconosciuto qualcosa di speciale (a specialness)» (p. 54). Cometa riassume così il succo di questa teoria:
Ciò che in ultima analisi, cioè da un punto di vista etologico e darwinista, caratterizza il making special è che gli umani rendono speciale solo ciò a cui tengono veramente o che intendono usare con cautela ed efficacemente (utensili, armi ecc.). Un oggetto decorato viene infatti usato con maggiore attenzione e ha già di per sé un valore (per la sopravvivenza) (p. 55).
La proposta di Dissanayake è interessante, e tuttavia alla fine lascia insoddisfatti; il punto problematico, in effetti, non riguarda tanto il fenomeno del making special, il punto è perché c’è il making special. Dissanayake propone un nuovo nome per un fenomeno già conosciuto (cos’è il meccanismo percettivo figura-sfondo, se non appunto un’operazione che rende “speciale” una porzione dello stimolo?), però il problema è cosa renda conto dell’esistenza di questo comportamento nell’animale umano. Sostenere che ha un valore adattativo è risposta usuale, ma scontata; siccome il making special è importante nella vita umana, allora deve avere un valore adattativo. Forse sì, forse no, chi lo sa? E soprattutto, come faremo a saperlo? Il fatto che un certo comportamento sia presente e importante oggi, non significa affatto che lo sia stato alla sua origine.
La questione è biologica, ma diventa subito pertinente anche per la teoria poetica. Stephen J. Gould ha molto insistito sul fatto che non tutte le caratteristiche fenotipiche si spiegano con un vantaggio selettivo (La struttura della teoria dell’evoluzione, 2002). L’esempio celebre di Gould è quello dei cosiddetti “pennacchi” della cattedrale di San Marco a Venezia, cioè quegli spazi approssimativamente triangolari che raccordano gli archi al diametro della base della soprastante cupola. I “pennacchi” non hanno nessuna spiegazione adattativa, ci sono solo per ragioni strutturali, perché altrimenti la cupola non starebbe su. Si potrebbe sostenere esattamente lo stesso per il meccanismo del making special: come fare ad escludere che non sia che un sottoprodotto di altri e più basilari meccanismi cognitivi?
Veniamo così al punto teorico generale con cui si confronta la biopoetica di Cometa. Torniamo al caso dei pennacchi di San Marco, paragonati a caratteristiche fenotipiche. Secondo la classica spiegazione adattativa i pennacchi oggi ci sono perché nel passato la loro comparsa avrebbe aumentato la fitness del fortunato animale che li aveva nella sua dotazione fenotipica. Secondo Gould, invece, i pennacchi non aumentano la fitness, e quindi non hanno una spiegazione adattativa; ci sono come effetti collaterali della presenza della cupola. Passiamo ora dall’esempio di Gould alla narrativa, o più in generale alla capacità umana di raccontare storie (a cui Cometa ha recentemente dedicato un altro libro molto interessante, Perché le storie ci aiutano a vivere: la letteratura necessaria, 2017). La questione teorica di fondo è: la capacità di raccontare “storie” (comprese quelle particolari storie che sono quelle che nella tradizione occidentale sono le “opere” d’arte) è come la cupola oppure come i pennacchi della cattedrale di San Marco? Nel primo caso, c’è una spiegazione adattativa per dare conto dell’esistenza di questo particolare comportamento: making special = capacità di raccontare storie = aumento della fitness. Nel secondo caso, invece, questa ragione adattativa non c’è, e si tratta di una capacità che si è sviluppata come conseguenza fortuita e inaspettata di qualche altro comportamento umano. Nel primo caso la letteratura serve a qualcosa, nel secondo no.
È questa la sfida che si pone per ogni futura e presente biopoetica. Cometa ne è pienamente consapevole, e dedica numerose pagine a mettere in guardia da quella che chiama in modo molto efficace la “nuova ortodossia”, che cerca invece di spiegare ogni fenomeno artistico ed estetico immaginandone un qualche presunto vantaggio evolutivo. In effetti, non basta aggiungere il prefisso neuro- ad una preesistente disciplina perché per magia nasca un nuovo campo disciplinare. La posta in gioco che affronta Cometa, allora, è quella di costruire uno spazio comune di riflessione e studio, all’intersezione fra fenomeni biologici e fenomeni culturali, senza però ridurre questi a quelli. Un romanzo è collegato anche alle formiche, ma non smette di essere un romanzo. Senza dimenticare che non solo le formiche non scrivono romanzi, soprattutto le formiche non sono interessate a leggerli (da un punto di vista evoluzionistico possiamo considerare le mente mirmecologica una condizione cognitiva necessaria per avere un giorno il Finnegans Wake; necessaria, ma non sufficiente. Il punto è che ciò che rende Finnegans Wake un capolavoro sta tutto nelle condizioni sufficienti, non in quelle necessarie).
Chiudiamo queste note con un esempio, per mostrare qual è – a nostro parere – la sfida teorica di fondo della biopoetica. Per illustrarlo dobbiamo tornare al famigerato orinatoio di Duchamp, vero motore concettuale del pensiero del ‘900 ma anche di questo secolo. Se torniamo per un momento alla teoria di Dissanayake, quella del making special, si tratta sicuramente di qualcosa di speciale; tuttavia non esiste proprio nessuna ragione al mondo perché sia speciale. È stato Marcel Duchamp che, in modo del tutto arbitrario, ha deciso di renderlo speciale. Ecco il punto, la decisione di Duchamp è stata un atto linguistico, in particolare un performativo, un dire che diventa un fare. Meglio ribadire questo punto: viene prima il dire poi il fare, prima la parola poi il fatto, prima l’immotivato poi la cosa motivata. Duchamp ha detto che l’orinatoio era arte, e improvvisamente è diventata un’opera d’arte. È il linguaggio, nella specie umana, che ha lo straordinario potere di rendere speciale qualunque cosa. E sembra davvero difficile spiegare questa prestazione con una qualche motivazione evoluzionistica. Perché sostenere che il linguaggio esiste per permettere a Duchamp di fare arte di un orinatoio non ha senso. Ma questa è una sfida per ogni teoria evoluzionistica: qualcosa che esiste ma non ha nessuna ragione evolutiva per esistere. L’arte umana è questa cosa speciale. Perché è l’arte che rende speciale qualcosa. Non si dà il caso contrario, che qualcosa di speciale diventa in seguito arte.
D’altronde Giorgio Prodi, subito dopo le righe che abbiamo ricordato in apertura di queste note, scriveva: «Va specificato che questa “storia naturale” [dell’estetica] non percorre il cammino della psicologia e semiotica comparate (i canti degli uccelli, i disegni delle scimmie), ma concentra l’attenzione sulla nascita dei sistemi linguistici dell’uomo» (Prodi 1983). L’arte si spiega con il linguaggio, in particolare con le speciali funzioni non comunicative e non referenziali (cioè, appunto, non adattative) del linguaggio umano. Tuttavia non è questa la tesi del libro di Michele Cometa: «Si tratta di pensare alla letteratura, e prima ancora alla narrazione e alla fiction, come una forma specifica del “vantaggio” evolutivo che ha permesso all’Homo sapiens di adattarsi a tutti gli ambienti del pianeta, anzi di ritagliarsi tra questi ambienti una propria nicchia ecologica» (Cometa 2018, p. 14). Il giorno che la biopoetica riuscirà a dare conto in termini adattativi dell’orinatoio di Duchamp, quel giorno sarà tanto una poetica, quanto una teoria biologica. Nel frattempo è il caso di leggere Letteratura e darwinismo, perché d’ora in poi ogni discussione estetica che non tenga conto anche di questi problemi sarà, letteralmente, fuori tempo.
Riferimenti bibliografici
M. Cometa, Letteratura e darwinismo. Introduzione alla biopoetica, Carocci, Roma 2018.
J. Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006.
G. Prodi, L’uso estetico del linguaggio, Il Mulino, Bologna 1983.