Le capanne di un villaggio su un’isola delle Filippine ci appaiono immerse nella rigogliosa vegetazione di mangrovie. Un luogo che appare idilliaco e lontano, condensato nel grumoso bianconero. Una voce fuori campo paragona questo paesaggio a un paradiso, ma ci dice anche che quello che un tempo era un eden si è trasformato in un inferno. Infatti le capanne immerse nel buio si accendono dei fuochi di un incendio, le milizie armate devastano e saccheggiano. Un uomo armato si apposta dietro gli alberi della foresta. Così si apre Phantosmia, il nuovo film di Lav Diaz, allucinatorio e, come sempre, implacabile percorso nella spettralità del tempo, nel suo concretarsi e raggrumarsi intorno al coacervo oscuro del male connesso al potere repressivo, ai dispotismi e alle dittature sanguinarie che funestano le Filippine (da Marcos a Duterte a Marcos jr.) ma altrettanto albergante nel profondo della condizione umana. Quell’uomo si chiama Hilarion Zabala, è stato un ranger dell’esercito filippino, poi si è arruolato nella polizia. Si è macchiato di numerose uccisioni, ha represso nel sangue le rivolte, e ora che ha lasciato il servizio è perseguitato dai fantasmi del proprio passato.

Quei fantasmi assumono la forma di un male simbolico, un segno che dalla psiche traumatizzata si trasferisce nel corpo come una sindrome. La sindrome detta phantosmia: una allucinazione olfattiva che induce Zabala a coprirsi il volto con un fazzoletto, assediato da olezzi nauseanti che avverte dappertutto. Il film assume la forma di una anamnesi, dal momento che Zabala è indotto da una psicologa a ricostruire il proprio passato, stilando un diario a rebours, per innescare il processo di guarigione. Zabala è un uomo solo, serrato dalle catene della colpa, e la radice psicosomatica della malattia (come avveniva per la psoriasi Hermes Papauran in When the waves are gone) trova la sua eziologia nell’infezione del potere violento e corrotto. Diaz dissemina una sorta di ‘topografia’ dei sensi: oltre l’olfatto, la vista, l’udito, il gusto. Il suo è un cinema sensoriale dove la materia filmica si fa pervadere dall’espandersi percettivo degli elementi del paesaggio che si attaglia ai corpi e aderisce al loro stanziare e deambulare, al loro situarsi negli spazi, al loro insinuarsi nella durata delle sequenze. In questo caso alla malattia dell’olfatto di Hilarion, corrispettivo di una corrosione dell’anima, corrisponde la progressiva perdita della vista del personaggio di Reyna, la fanciulla indotta a prostituirsi da una matrigna spietata e arcigna, che gestisce uno spaccio alimentare (situazione raccontata con la crudeltà di un film di Von Stroheim). Così come all’ossessione del cibo, ricorrente anche qui come in altri film di Diaz, corrisponde l’incapacità nevrotica di Zabala a mangiare. E ancora alla incomunicabilità apatica dell’ex-sergente corrisponde l’assordante suono della chitarra elettrica entro cui il giovane figlio di lui (dal volto dipinto di biacca come un fantasma) risolve l’ostile mutismo nel rapporto col padre. La struttura del film procede allora per impulsi sensitivi, intrichi di ricordi, imbricazione di spazi.

Dal momento in cui Zabala viene indotto a reinserirsi in una istituzione militare, la colonia penale dell’isola di Pulo, spazio concentrazionario che confina con il villaggio, ciò che viene agita è una reimmersione, la costrizione a rivivere il passato e a farlo irrompere in lacerti che vanno a incastrarsi nel narrato in un progressivo spurgarsi dei traumi colpevolizzanti vissuti da Hilarion. A poco a poco avviene nella sua psicofisicità come una liberazione che assume le sembianze di un itinerario verso un luogo utopico di riscatto, di redenzione, un altrove situato “da qualche parte” (a un certo punto viene fischiettato un motivo che sembra riecheggiare il motivo di Over the Rainbow del Mago di Oz), aldilà della prigione in cui si rinserra il passato persecutorio. Allora la figura di Reyna, con la sua fragilità sonnambolica e il suo disperato isterismo, diventa un catalizzatore per Zabala, in modo da trasferire in lei la sua pulsione al riscatto.

Il conflitto che si instaura con il corrotto e dispotico Maggiore che sovrintende alla colonia penale (e qui pare riverberare l’atmosfera del racconto di Kafka Nella colonia penale in cui la condanna viene inscritta dalla macchina del potere sullo stesso corpo del soldato condannato) imprime all’andamento risolutivo del film una deriva liberatoria, una apertura verso la speranza di un luogo dove, come si dice a un certo punto, “la vita è più vera laggiù”. Questa deriva salvatrice viene enucleata anche dall’insorgere in più punti, e dall’intensificarsi verso il finale, di un elemento legato alla leggenda, al sostrato mitico dell’isola. Infatti all’odore fantasma si contrappone uno strano animale-fantasma, l’invisibile e misterioso Haring Murang, l’imprendibile gatto selvatico. Così come l’arrivo sull’isola di un poeta errante sembra evocare e invocare la via di salvazione per Zabala.

In Phantosmia Diaz sembra accedere a una sorta di “epica morale” che ha gli accenti del cinema classico di Flaherty o di Murnau, entro cui l’intersecarsi tra colpa e liberazione, tra paesaggio interiore e forza della natura, produce una meditazione tanto poetica quanto politica che intride l’immagine di una forza emessa dal tempo lungo dei suoi piani, dal lento estrinsecarsi di un dolore che è anche l’invocare il ritorno a un mondo innocente, dove l’uccidere e il reprimere nella violenza non abbiano più senso. Allora ciò che trova Zabala per liberarsi dall’odore di morte dei suoi spettri personali è una strada di riscatto che paradossalmente passa per un colpo di pistola che, freddando il tirannico Maggiore, è come se lo liberasse dalle colpe di tutti i suoi omicidi precedenti. Così come l’affidare Reyna a una barca che scivola lungo il fiume verso un altrove possibile fa sì che il paradiso perduto possa rovesciarsi e confluire in un Paradiso riconquistato.

Phantosmia. Regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio: Lav Diaz; interpreti: Ronnie Lazaro, Janine Gutierrez, Paul Jake Paule, Hazel Orencio; produzione: Black Cap Pictures, TEN17P, Sine Olivia Pilipinas; origine: Filippine; durata: 246’; anno: 2024.

Tags     Lav Diaz, Venezia 81
Share