La forma-romanzo è quella dei suoi personaggi. Il personaggio romanzesco non è un elemento tra gli altri, che definisce il mondo rappresentato, ma è la via d’ingresso a quel mondo. E la forma dei personaggi è anche in qualche modo la forma dei romanzi stessi. E questo lo pensava anche Giacomo Debenedetti (Il personaggio uomo, Il Saggiatore, 2017), quando sosteneva che la frattura tra la forma classica di romanzo (“naturalistica”) e quella nuova era segnata da una frattura, o meglio da una metamorfosi, tra personaggio-uomo e personaggio-particella: “Noi ora assistiamo alla metamorfosi del personaggio-uomo nel personaggio-particella” (p. 49).
Il personaggio divenuto antipersonaggio resiste però al cambiamento. E lo fa in diversi modi, anche attraverso “erotismo e sessualità”, che “sopravvivono nell’antipersonaggio, tra gli ultimi e stravolti residui dei suoi vecchi predecessori” (p. 71). Rientrano in questa casistica i personaggi di Beckett.
E nel passaggio al cinema? Il cinema in un certo senso resisterebbe comunque alla liquefazione del personaggio, perché la presenza dell’attore non permette del tutto la scomparsa dell’umano:
Il cinema favorisce le resistenze del personaggio-uomo, che mettono quasi sempre in scacco l’antipersonaggio. La tanto celebrata “presenza in scena” (il personaggio è là) comporta la presenza di un attore […]. Il suo viso, il modo personale e inalienabile di essere al mondo, che riescono a rendere così comunicabile l’incomunicabilità dell’eroina, testimoniano un destino privato che le appartiene in proprio, di là da quello che sta vivendo sulla scena (pp. 70-71).
Insomma, la presenza di un corpo in scena garantisce l’ancoraggio all’umano, preservato così dalla sua restituzione a particella. Eppure, a questo discorso, nella sua capacità di declinarsi in espressioni e formule originali, manca qualcosa, qualcosa di radicale che in quegli stessi anni, meglio di altri, Pasolini comprendeva, e cioè l’essere del personaggio romanzesco in primis intercessore dell’autore, e dunque di una pratica di scrittura.
Il romanzesco, sia letterario sia cinematografico, non è altro che la forma di discorso che, concatenando due soggettività, personaggio ed autore, rende il primo potente intercessore (ben diverso dall’alter ego) del secondo, della sua visione estetica ed etica del mondo. Se il discorso libero indiretto è l’adozione da parte dell’autore del suo personaggio, questa adozione – psicologica, morale, linguistica, stilistica – può giungere anche all’abbandono finale.
Non solo, l’intercessione è reciproca: il personaggio può prendere vita solo attraverso la coscienza autoriale. È un concatenamento enunciativo tra riflessività (autore) e produttività (personaggio) quello che il romanzesco identifica, definendo un sistema eterogeneo, distinto dall’omogeneità epica (come ben sapeva Bachtin). E questo ben oltre la dimensione letteraria, come pensa il Pasolini di Empirismo eretico, estendendo il libero indiretto al cinema nella forma di “soggettiva libera indiretta”.
Al cinema, il libero indiretto è una questione di stile (“La caratteristica fondamentale della ‘soggettiva libera indiretta’ è di non essere linguistica, ma stilistica”, p. 179), per cui l’autore usa il personaggio per liberare la sua coscienza estetica, etica, religiosa del mondo. Pasolini, come anche Debenedetti, cita Antonioni e i suoi film con la Vitti.
Ma mentre Debenedetti, nonostante intuisca in diversi momenti qualcosa come una pratica di intercessione, resta di fatto su un piano “contenutistico” (“le protagoniste sono bloccate dall’impossibilità di ‘inserirsi nella vita’”, p. 68) e riconosce al cinema la necessità di fare comunque i conti con lo spettatore (necessità che limiterebbe la possibilità di accedere ad un vero sperimentalismo), Pasolini è più radicale e coglie tutta la potenza della scrittura, dello stile nella pratica di intercessione:
Nel Deserto rosso, Antonioni guarda il mondo immergendosi nella sua protagonista nevrotica, rivivendo i fatti attraverso lo ‘sguardo’ di lei. […] Per mezzo di questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato il proprio momento più reale: ha potuto finalmente rappresentare il mondo visto dai suoi occhi, perché ha sostituito, in blocco, la visione del mondo di una nevrotica, con la sua propria visione delirante di estetismo (p. 180).
Non è dunque in gioco un personaggio che genericamente smarrisce i suoi connotati di umanità, i suoi tratti relazionali, la sua esperienza. Abbiamo un personaggio che, “malato” nel suo rapporto con il mondo, inibito nell’azione, viene usato dall’autore per liberare la sua propria visione del mondo. Uso che può giungere, come nel finale de L’eclisse (1962), fino a far scomparire il personaggio, lasciando libera la visione di organizzarsi nella composizione geometrica di spazi vuoti e astratti.
Perché sono importanti i personaggi nel romanzesco letterario e cinematografico? Lo sono perché definiscono da un lato un concatenamento enunciativo con l’autore, e dunque tra eterogenei, che toglie ogni tratto monologico alla scrittura romanzesca aprendola al carattere incompiuto e in divenire del presente, dall’altro perché attivano un processo di divenire inciso nella scrittura stessa: è il “Madame Bovary c’est moi” di Flaubert. Ciò significa in definitiva una cosa sola: il romanzesco è la potenza dello stile in quanto “modo assoluto di vedere le cose” – come dice Flaubert –, e dà luogo a processi che portano a parola ciò che parola non ha, e che non avrebbe potuto avere nelle strutture “mitiche” delle forme classiche. Questo modo assoluto è quello che crea l’identità del passivo e dell’attivo, dell’irrilevante e del rilevante, del dettaglio e del tutto, dell’animato e dell’inanimato. Questa identità è quella che mette in questione quelle sociali e le loro gerarchie.
È il regime estetico istituito dalla democrazia – come pensa Rancière – quello che anima la scrittura romanzesca, e che mette in questione i mythoi classici, restituendo ad un uomo qualsiasi la possibilità di accedere ad una esperienza qualsiasi. Questa scrittura del “qualsiasi” è anche quella del cinema, ed è sempre a rischio di essere abbandonata a favore di un ritorno agli intrecci e ai loro dispositivi mitici di racconto e controllo dell’esperienza, dove ciò che ha rilievo e merita di essere raccontato è anche ciò che serve a stabilizzare le situazioni.
Detto altrimenti: nelle forme narrative contemporanee marcate da forte popolarità (e penso, tra le altre cose, a molte serie televisive, a partire da Gomorra) non emerge forse il bisogno di un ritorno ad una forma rassicurante, anche nella scansione temporale lunga, di controllo dell’esperienza, attraverso la costruzione dell’intreccio, l’imporsi della sua logica e dei suoi fondamenti mitici? Le codificazioni forti, nonostante apparenti innovazioni linguistiche, che animano la narrazione seriale non sono indicazioni chiare di un racconto che alla fine è orientato ad un ancoraggio mitico e a-problematico di idee e sentimenti? E non è forse nel tratto dispersivo, aleatorio, erratico del romanzesco, presente sia pur in zone marginali del cinema e della narrativa contemporanea, che sentiamo l’aprirsi e il rinnovarsi in forma inedita della nostra vita e del nostro mondo?
Riferimenti bibliografici
G. Debenedetti, Il personaggio uomo, Il Saggiatore, Milano 2017.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015.
J. Rancière, Politica della letteratura, Sellerio, Palermo 2010.