In occasione della preparazione del numero 400 dei “Cahiers du Cinéma” (1987), la direzione della rivista chiese a Wim Wenders di fare da caporedattore di quel fascicolo speciale, e Wenders suggerì un tema di riflessione a cui sia i cineasti sia i cinefili sono molto sensibili: i film pensati, scritti, immaginati ma mai realizzati. Nell’editoriale in forma di lettera pubblicato da Wenders in quella circostanza, il regista definiva “film subacquei” i progetti incompiuti, proponendo la metafora dell’iceberg: «La storia del cinema, da questo punto di vista, assomiglia a un iceberg di cui si può vedere soltanto l’estremità, circa il dieci per cento, che rappresenta le opere compiute, le immagini liberate – sott’acqua rimane ancora la maggior parte di esse».
Pensare che la terra emersa sia soltanto una parte del reale è proprio la linea tematica di Submergence, ventitreesimo lungometraggio di finzione per il regista tedesco. La storia è tratta da un romanzo di J.M. Ledgard, cronista politico e corrispondente di guerra dell’Economist con due opere narrative di notevole fortuna critica all’attivo (mai pubblicate in Italia); l’adattamento è curato da Erin Dignam, sceneggiatrice che ha collaborato con Sean Penn (Il tuo ultimo sguardo) e con lo stesso Wenders (Person to Person, dal film antologico 8). Ne viene fuori un film con una superficie di genere (il romantic drama) e una profondità autoriale, in cui Wenders ribadisce la propria adesione al pensiero per immagini.
La chiave d’accesso al mondo sommerso è il cinema stesso, L’Atalante di Jean Vigo: così si chiama la nave su cui si imbarca la protagonista, studiosa dei fondali oceanici, arrivando anche a lambire la bergmaniana isola di Fårö; e proprio alla sequenza più celebre del capolavoro di Vigo si ispira il finale di Submergence. La struttura narrativa è quella del romance in tre atti, che parte da uno stato di congiunzione dei personaggi (la storia d’amore nasce in Normandia, di fronte all’oceano Atlantico), a cui segue una lunga e dolorosa disgiunzione, per poi procedere verso una nuova congiunzione, sulla quale il film non prende posizione, abbagliando lo spettatore, dopo tanta oscurità, con un fondu au blanc.
Pur allestito in una vasta estensione spaziale, che va dalla Somalia all’Islanda, il mondo narrativo di Submergence è rarefatto e poco popolato, come se il sentimento intenso che lega i due protagonisti ne ottundesse la percezione degli altri individui, assenti o relegati in secondo piano. Ne è un perfetto esempio la scena del pranzo in hotel, quando l’uomo chiede alla donna di spiegargli com’è l’oceano nei suoi strati più profondi e la donna gli fa chiudere gli occhi per immaginarlo; nella sala ci sono altre persone ai tavoli, ma non sembrano esistere davvero agli occhi della coppia.
Questa rarefazione sociale da una parte limita gli incontri possibili, perimetrando le vite dei due amanti; dall’altra, li rende molto sensibili al problema più generale dell’alterità. Entrambi si confrontano con l’alterità come opportunità o minaccia: Danielle scende nei recessi oscuri e inospitali degli oceani alla ricerca delle origini della vita, James è un agente dei servizi segreti britannici, che si infiltra in zone di conflitto dell’Africa con l’identità fittizia di ingegnere idraulico.
I due attori (Alicia Vikander e James McAvoy) danno corpo ai rispettivi personaggi con estrema economia gestuale ed espressiva, caratterizzandoli in senso molto astratto: sradicati, isolati, trasportati da correnti più forti della volontà individuale, Danielle e James sono esseri quasi ideali, funzionali a rappresentare concetti. Wenders in questo senso chiarisce fin dal primo atto che sta mettendo in pratica una smaterializzazione della passionalità, una sottrazione di fisicità, come suggerito dal postminimalismo di Max Richter come musica di scena (Infra 4 è un brano di repertorio per archi che ascoltiamo in una scena nella camera di Danielle, mentre la musica extradiegetica, piuttosto accorata, è di Fernando Velazquez).
Anche il sesso è molto ritualizzato, scomposto in gesti che sembrano avere un significato ulteriore. Si riconosce il pudore del regista, che sul set di Al di là delle nuvole annotava sul suo taccuino: «[John Malkovich e Sophie Marceau] recitano entrambi la scena nudi come Dio li ha fatti […]. Sono veramente così vicino al letto e agli attori che potrei toccarli. Così invece di guardare loro preferisco guardare con un occhio l’immagine quasi indistinguibile del monitor e con l’altro Michelangelo [Antonioni]».
Il pudore si estende dal corpo alla parola: Submergence è un film poco parlato, in cui dopo la separazione (James va in Somalia per una missione pericolosa, Danielle sale sull’Atalante per la spedizione scientifica) i due amanti possono solo pensarsi e questo pensiero si traduce essenzialmente nella sintassi di montaggio, l’area espressiva in cui si risolve la tensione tra immagine e racconto che attraversa tutta l’opera wendersiana. I due amanti si allontanano dunque l’uno dall’altra, in accordo con la consueta irrequietezza del regista («viaggiano da sempre i personaggi di Wenders», scriveva Cristina Jandelli nel 1994, e continuano a farlo anche oggi); ma abdicando all’obiettivo relazionale si avvicinano al loro telos pragmatico.
Da questo momento in poi, il romance si colloca nei raccordi tra i blocchi narrativi, spesso giocati sull’elemento liquido (visivo o sonoro), oppure si affida al flusso di coscienza dei personaggi, da cui emergono collegamenti con l’altro assente. Accade, per esempio, quando James, catturato dai jihadisti e gettato in una cella senza luce, si abbandona al soliloquio con un filo di voce: “Sono sempre me stesso. Sono ancora James More. Non c’è la luna. C’è solo oscurità, come quella che conosci tu, mia Dani”.
Sulla luce fa un gran lavoro Benoît Debie (direttore della fotografia di tanti film di Gaspar Noé e dell’ultimo Audiard, I fratelli Sisters), riesce a toccare gli estremi, seguendo Vikander e McAvoy in esterni e in interni, di giorno e di notte, dal massimo dei dettagli alla loro perdita assoluta, dal nero al bianco, dal nord al sud, in un’autentica impresa fotografica. Nella parte sull’Atalante, seguiamo Danielle nel suo personale percorso verso il buio, verso la zona adopelagica dell’oceano dove non arrivano raggi solari e dove comunque si forma la vita. Le riprese dal sommergibile ci ricordano l’attrazione irresistibile del cinema per il mondo sommerso (si pensi al Cameron di The Abyss e di Titanic), per l’idea che la macchina da presa possa ancora mostrare il reale per la prima volta.
Riferimenti bibliografici
C. Jandelli, “Fino alla fine del mondo”, in AA. VV., Wim Wenders. Il cinema dello sguardo, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1994.
W. Wenders, Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1989.
Id., Il tempo con Antonioni, Edizioni Socrates, Roma 1995.