Einstein: L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta "intellighenzia" cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata 
Freud: Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all'insuccesso (Einstein, Freud 2017, pp. 62, 72)

Ammesso e non concesso che la letteratura sia l’arte di raccontare la vita, mentre la filosofia si limiterebbe a pensarla, c’è da chiedersi in quale modo sia più appropriato scrivere rispetto alla guerra. Tralasciando la questione sul tema della filosofia come genere letterario, è indubbio il fatto che un saggio di teoria o scienza politica voglia incorniciare qualcosa che nel linguaggio vivo di un romanzo o di un’intervista rimane sfuso, caotico, singolare. La singolarità della sofferenza di un personaggio è feroce, e di una ferocia del tutto differente dalla violenza che possono avere i concetti, per quanto siano questi ultimi ad arrotare le disgrazie più nefaste. Pensare la guerra, o parlare la guerra? La guerra, come immagine e immaginario è quella parola che richiama campi e paradigmi, etichette strategiche e casellari globali. Anche i telegiornali, il true-crime, i reels di infotrattenimento, sono forme che ammiccano a questa parola e a ciò che contiene.

Tutto ciò che ammicca strizza l’occhio a un immaginario e ci aiuta a vedere un senso, uno specchio che riflette la salienza di ciò su cui inciampiamo quotidianamente. Ma questa è sempre una parte della storia. C’è allora da chiedersi quale, o quante altre parti della storia ci siano. E chiedersi se siano effettivamente enumerabili, rintracciabili, sondabili. Il manicheismo dell’etica riecheggia nella superficialità da salotto dei talk-show, in cui si reiterano un’incensurata pornografia del dolore e le connivenze che strutturano ogni schieramento istituzionale. Interviene a questo punto la tecnica del montaggio, del report, nella realizzazione di un’immagine che Baudrillard definiva «iperreale»: iperreale è il filmato in 4K dei bombardamenti su Gaza, il cui audio in uscita preannuncia una voce registrata e doppiata di un’intervista sul luogo, a cui segue possibilmente il frame di qualche autorità intenta nelle operazioni di mediazione del conflitto.

Iperreale è ciò a cui si finisce per credere, quando la ferocia di ciascuna sofferenza viene sublimata in una narrazione, e al fondo in un concetto. Quando cioè l’operazione di denuncia viene sopraffatta dalla volontà di sapere, dall’istinto a vedere superfici invece di corpi. Per studiare i fenomeni bisogna digerire le informazioni e far decantare ciò che rimane nel fondo della testa. E quando pure ci si trovasse alla formulazione di una risposta, è necessario interrogarsi sulla legittimità della domanda che è stata posta in primo luogo. Che una domanda sia retorica non la rende illegittima, né vale necessariamente il contrario. In questo caso l’interrogazione, la domanda potrà ritenersi legittima in misura della propria autenticità. E allora anche la risposta dovrà dirsi più o meno legittima. Più o meno autentica, più o meno feroce, e in ultima istanza più reale o “iperreale”.

Scavare nella storia e negli almanacchi, costruire cartografie e ricamare sulle tradizioni di pensiero non significa necessariamente inficiare tutto questo. Nessuno pretenderà l’irruenza di un cinismo a la Céline, o di una gramsciana lettera dal carcere da parte di un trattato. Ma quando la domanda sarà autentica, non difetterà di quella stessa verve. Il resto è mercato della parola. Interrogarsi su Perché la guerra? assume toni diversi nel libro di Frédéric Gros (Nottetempo, 2024) o nell’omonimo carteggio tra Einstein e Freud. Non si tratta solamente di distanza storico-culturale, di generi e intenti differenti. Quello che fa la differenza è ciò che gli esergo tratti dal carteggio Einstein-Freud mettono bene in evidenza. Si tratta della consapevolezza della marginalità del ruolo di pensatore rispetto a quello del diretto interessato dalla «rozza realtà».

Il pacifismo dei due grandi intellettuali non ha granché d’intellettuale, ma ha molto di biografico, di ferocemente storico. Freud fu un sostenitore della guerra in prima battuta. Cambiò idea non tanto per far seguito a un’etica di stato o di comunità, evidentemente nemmeno orientata allora in quel verso, quanto per l’esperienza interiore di quella guerra. Non che serva viverne il dramma per poterla ripudiare, anzi, è forse più semplice ripudiarla proprio non avendola mai vissuta, non avendola dovuta combattere e non avendola mai dovuta tenere nei propri paraggi stretti, fisici, quotidiani. Forse chi la fugge la porta sempre con sé, e per questo diventa spaventoso a sua volta.

Ma allora, quale legittimità può avere la nostra interrogazione da remoto di eventi tanto sconcertanti e localizzati? Perché se è vero che, come ricorda giustamente Gros, le strategie terroristiche post-11/09 hanno diffuso il dramma del panico a livello globale, è altrettanto vero che la guerra e i suoi disastri, le sue forme, rimangono evenemenziali, perché l’unicità di ogni vita persa è intersecata all’unicità dell’evento in cui è stata recisa. La dialettica è esattamente il fallimento che Gros denuncia quando afferma che «[b]isogna superare Hegel e ammettere che molte guerre non si fanno per la storia, ma contro di essa» (ivi, p. 127). Lungi dall’essere una critica all’uso delle categorie storiche, questa citazione, come questo commento, sostengono appunto l’importanza capitale della storicizzazione degli eventi per un pensiero che possa dirsi veramente politico.

Ciò che però rimane escluso dal saggio di Gros è forse proprio il tratto dell’impolitico, tanto pressante nel pensiero del Novecento, rispetto alla domanda cardine del libro. Una domanda che come studiosi è più facile rivolgere ai testi e ai telegiornali che a noi stessi. Possono lasciare perplessi passaggi come questo, usato da Gros per descrivere quelle che qualifica come «guerre difensive»:

Così, per ogni soldato o patriota ucraino barricato in casa con un fucile in mano a Kharkiv o Kherson nella primavera 2022, si trattava effettivamente di tenere duro il più possibile. La forza etica del tenere duro discende dal fatto che, contrariamente all’ardore presupposto dalla guerra d’attacco, in questo caso è evidente la dimensione difensiva e il lavoro interiore che richiede (ivi, p. 52)

In che modo è stata interrogata l’esperienza di queste persone? Come si possono generalizzare questi valori, importare le notizie dal fronte e farne oggetto di uno studio formale, categoriale? Non si tratta di mettersi in posizioni di ostilità per principio, ma di interrogarsi su quale sia il modo per autenticare le grandi domande che ci possono giungere da ogni fronte, esterno o interno, visibile o invisibile, quando a viverne l’innesco non siamo stati noi stessi in prima persona. È forse un momento in cui l’ermeneutica può riproporsi come qualcosa di più, di nuovo rispetto a ciò cui spesso viene ridotta.

Leggere attentamente la domanda, ma anche porsela, inventarsela attentamente, ascoltare la voce che promana, assieme all’ammiccare dell’immagine. Il libro di Gros è uno scorrevole compendio di idee sulla guerra, ricamato sul leitmotiv del conflitto russo-ucraino. Ciò che manca è un senso di prossimità dello scrittore alla domanda che pone, una domanda fortissima, per molti insostenibile. Darsi una risposta parziale significa comunque lasciare spazio ad altre voci, e forse la parzialità di questo saggio, volutamente o meno, rimedia da sé all’eccessivo formalismo con cui tratta un tema come i perché delle guerre.

Riferimenti bibliografici
J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2015.
A. Einstein, S. Freud, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, Torino 2017.

Frédéric Gros, Perché la guerra?, Nottetempo, Milano 2024.

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