Sabato 19 aprile 2020, Saviano, provincia di Napoli. Lungo le strade della cittadina si snoda un piccolo e mesto corteo per un funerale spontaneo per il sindaco-medico Carmine Sommese, anche lui vittima della Covid-19. Reazione immediata del presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca: subito “paese in quarantena”. Chiediamoci, ancora una volta, perché in questi mesi siano stati vietati i funerali. La risposta più ovvia è per motivi sanitari, per evitare assembramenti che possano favorire la diffusione del SARS-CoV-2. La risposta è quella giusta, evidentemente. D’altronde lo sappiamo, c’è l’emergenza, ai funerali penseremo dopo (dopo il 4 maggio, ora lo sappiamo).

Tuttavia in questa risposta, anche se ribadiamolo è quella giusta, rimane qualcosa da pensare. Perché stiamo parlando di un funerale, non di una grigliata domenicale. In effetti i funerali sono sempre stati importanti (non c’è civiltà umana che, in un modo o nell’altro, non si prenda cura ritualmente dei corpi dei morti). Talmente importanti che le persone di Saviano che hanno partecipato al funerale del loro sindaco, evidentemente molto amato, lo hanno fatto anche sapendo che andavano incontro ad un doppio rischio, sanitario e penale. Nonostante questo, hanno evidentemente sentito che partecipare a quel funerale fosse più importante di tutto il resto, della paura del virus e di quella delle forze dell’ordine. È questo il punto, che cosa hanno voluto testimoniare, queste persone, partecipando ad un proibitissimo funerale?

In Essere e tempo Martin Heidegger distingue due modi fondamentali di darsi della morte: da un lato c’è il semplice “cessare di vivere”, dall’altro c’è il “morire” che invece è «il modo di essere con cui l’Esserci è-per-la-sua-morte» (Heidegger 2005, pp. 296-297). La prima modalità è quella dei viventi non umani: un gatto viene investito da un’automobile, il gatto muore, il cadavere rimane sul ciglio della strada, senza funerale né compianto. Il “cessare di vivere” è un fenomeno puramente biologico, un corpo diventa prima cadavere e poi si decompone (pulvis es, et in pulverem reverteris). Il “morire”, invece, è un fenomeno diverso, in nessun modo sovrapponibile al “cessare di vivere”. Qui non si tratta di affermare la superiorità umana sugli animali: il fatto è che la morte, per gli umani, è un evento ad uno stesso tempo già anticipato (diventare adulti vuol dire scoprire di essere mortali, una scoperta che gli animali non sembrano fare), e un fenomeno sociale. In questo senso non si muore mai soli, si muore sempre come partecipi di una collettività di cui si faceva parte. La morte umana è sempre e contemporaneamente un evento biologico e un evento sociale.

La morte è quindi sempre doppia, morte individuale e morte per la comunità. Paradossalmente è questa seconda morte quella più pericolosa, perché la morte del singolo mette in crisi la possibilità stessa di una comunità. Ernesto De Martino chiama “presenza” lo sforzo individuale di stare al mondo come esseri umani. La “presenza” è faticosa, richiede un impegno costante contro la minaccia opposta della “crisi della presenza”, cioè la crisi della capacità di stare al mondo in modo umano. E niente minaccia la presenza come la morte. Appunto perché la morte mostra quanto sia fragile il tessuto della comunità.

Il funerale, allora, è la risposta rituale contro la sfida che la morte lancia alla comunità. Si capisce perché il divieto dei funerali sia stato così straziante: non è tanto il dolore dei congiunti a essere messo in questione, è il dolore della comunità che sente di non avere nulla da opporre alla potenza della morte. Seppellire i morti serve alla comunità a superare l’incrinatura che ogni morte apre nella comunità minacciata: «i morti non fatti morire dai vivi» –i morti non accompagnati ritualmente alla morte – «tendono a tornare in modo irrisolvente» (De Martino 2019, p. 152), cioè non smettono di non morire, cioè non smettono di minacciare la comunità. La crisi della morte, senza funerali, senza riti collettivi, senza parole pubbliche, è una crisi che non viene mai superata.

«Chi non oltrepassa una situazione critica ne resta prigioniero e ne subisce la tirannia: la presenza rimasta senza margini davanti alla situazione luttuosa perde la fluidità, la operabilità, la progettualità del divenire mondano» (ibidem). Il blocco dei funerali, allora, impedisce questa fondamentale operazione umana che salvaguarda la comunità. Il morto non smette di morire, e il vivo non smette di temere la morte. Rimane solo quella che De Martino chiama “angoscia”, in quanto «angoscia davanti al nulla» (ivi, p. 525).

Forse allora è proprio per opporsi a questo “nulla” che gli abitanti di Saviano hanno sfidato il divieto: se non vogliamo che insieme al morto muoia anche la comunità di cui faceva parte, allora quel morto va accompagnato nel suo estremo viaggio. Con quel gesto irresponsabile – ma allo stesso tempo il gesto più umano che ci sia – hanno provato a trasformare l’angoscia in lutto, hanno provato a uscire dalla paura. Non è quello che dovremmo fare tutti?

Riferimenti bibliografici
E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2019.
M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi 2005.

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