Passing è passaggio, transito, ma anche morte. È il passaggio che molti neri, con pelle chiara, operavano in America facendosi passare per bianchi. Questo non solo per evitare problemi ed emarginazione ma anche per cogliere opportunità. È quello che fa Claire, che vive con un marito bianco e ricco che odia i neri. Ma è anche quello che in forma più mascherata talvolta capita alla sua amica Irene, che ha sempre vissuto ad Harlem. Siamo negli anni venti, le due amiche d’infanzia si ritrovano per caso a New York e misurano nella distanza anche la loro prossimità. Claire con la sua menzogna originaria cancella la sua identità, continua a mascherarla e a rinnovare tale simulazione davanti all’odio del marito verso i neri. A tale messa in scena partecipa anche Irene, sia all’inizio quando gira nelle zone dei ricchi bianchi con tanto di falda del cappello calata sul viso, sia quando davanti al marito di Claire finge di essere bianca.
È una menzogna che nasconde una vergogna sociale quella che sta al cuore del film. Il sistematico fingere di essere altro da quello che si è per opportunismo, cinismo, assenza di morale (come riconosce Claire), porta a non riconoscersi più. E trasforma un dramma sociale segnato da lotte e conflitti come quelli razziali in America in un dramma privato. Il peso della realtà e della conflittualità sociale viene eluso dall’individuo, e tale elusione porta a sviluppi melodrammatici, coinvolgendo anche sentimenti e rivalità.
Claire dopo aver rincontrato Irene riprende a frequentarla, va ad Harlem, si avvicina al marito di lei, Brian, che fa il medico. Di questa vicinanza sembrano entrambi compiaciuti, e Irene ne soffre. Il tema della finzione qui si intreccia con rivalità e gelosie in amore, tenute anche in questo caso su un filo di ambivalenza, che è il connotato espressivo dominante del film. L’ambivalenza profonda di tutti i personaggi, soprattutto delle protagoniste femminili, si riflette nello stile di Rebecca Hall, attrice qui al suo primo film come regista, la cui elevata formalizzazione compositiva, che prende corpo in un bianco e nero a tratti estetizzante, rifrange la sospensione e l’ambiguità di tutti i personaggi. Che ambendo a vivere la forma della socialità (parties e via dicendo) espungono e occultano la forza della società, la sua violenza.
È quello che Irene vuole nascondere ai suoi figli quando tacita il marito che sta raccontando ai ragazzi del linciaggio di un nero accusato, senza alcuna prova, di aver aggredito una ragazza. La donna vorrebbe proteggere i figli, non dire loro niente, lasciarli vivere nella confortevole casa borghese, riservando il suo impegno per la causa nera solo al suo coinvolgimento in un comitato per la difesa degli afroamericani. Ma è tutto troppo astratto e lontano dalla verità. Nascondere il peso della realtà e l’affermazione in concreto della verità porta la vita ad eclissarsi e conduce ad una fine tragica.
Impegnarsi nei comitati di difesa dei neri per poi tenere all’oscuro i propri figli su tutto ciò che di brutto nel mondo accade contro la gente di colore significa usare quell’impegno come una sorta di maschera immaginaria ed ideale che nasconde al soggetto le sue vere inadempienze e la sua passività, sia nei confronti di figli che del marito, che la rimprovera di trascurarlo per questo suo velleitario attivismo. È una condizione di passività, vicina alla paralisi, quella che vive Irene, che fa anche un passo indietro quando Claire si avvicina al marito, e i due sembrano star bene insieme. Si ritira di fronte all’intraprendenza di Claire, e vedendo il marito contento si sente scavalcata e incapace di essere attraente.
Questa condizione di passività melodrammatica trova il suo culmine nel party finale. Irene è provata, anche per aver incontrato camminando per strada insieme ad una sua amica nera il marito di Claire, rivelando dunque la sua menzogna. Siamo tra persone di colore in un confortevole appartamento di una New York molto teatrale, dove anche gli esterni sono trattati come interni. Claire e Brian continuano a flirtare, Irene apre la porta finestra e guarda giù il cortile innevato. L’attesa sembra quella che prelude ad un suicidio. Claire la guarda, ma non interviene. Come le aveva detto poco prima, se il marito l’avesse scoperta per quello che era, cioè una nera che stava ora tra neri, sarebbe tornata a vivere ad Harlem, libera come sembrava ora essere.
L’attesa è interrotta dal precipitare nell’appartamento del marito di Claire. È incredulo e fuori di sé. Si avventa contro la moglie che, senza che ci venga mostrato come, precipita dalla finestra aperta. Si tratterà di un “incidente”, come viene derubricato dalla polizia.
Il film mostra con grande forza ed intensità – a partire dall’omonimo romanzo del 1929 di Nella Larsen – la riduzione di una situazione politica e sociale in un melodramma della menzogna, dell’elusione e della passività femminile. Testimoniando così di come società e storia siano ciò che di esse facciamo: forme “oggettive” sulle quali attivamente intervenire per modificarle, o dalle quali rifuggire a favore di vantaggi “soggettivi”, immaginari o effettivi, che da questa elusione presumiamo possano derivare. Nel primo caso abbiamo l’azione e l’iniziativa politica che ha contrassegnato la lotta per l’emancipazione dei neri, dall’altro il passing che fin dalla schiavitù ha segnato la via passiva per uscire dalla segregazione.
Due donne – Passing. Regia: Rebecca Hall; soggetto: Nella Larsen; sceneggiatura: Rebecca Hall; fotografia: Eduard Grau; montaggio: Sabine Hoffman; scenografia: Nora Mendis; musiche: Devonté Hynes; interpreti: Tessa Thompson, Ruth Negga, André Holland, Bill Camp; produzione: AIUM Group, Flat Five Productions, Forest Withaker’s Significant Productions, Picture Films; distribuzione: Netflix; origine: USA; durata: 98′; anno: 2021.