Il ramo di un pino arrotolato su se stesso a formare, in primo piano, un cerchio. Che diventa quasi un obiettivo, che inquadra al di là del fiume un paesaggio di case. Paesaggio anonimo, che non interrompe la continuità di ciò che si vede immediatamente al di fuori del cerchio stesso. Abitazioni distribuite orizzontalmente sulla riva del fiume.
Ma ciò che sorprende in questa silografia è che l’“obiettivo” composto dal ramo arrotolato emerge per negarsi: non mette a fuoco nulla di particolare, non distingue un dentro da un fuori, non attua alcuna focalizzazione. Il paesaggio sta lì, in se stesso, incluso il ramo in primo piano. La profondità nel campo non diviene profondità di campo. Nessuna vera interazione, né visiva né drammatica. Solo misurazione della distanza.
È Il Pino della luna sulla collina di Ueno di Hiroshige, una delle magnifiche serigrafie esposte nella mostra alle Scuderie del Quirinale a Roma.
I gorghi di un mare in tempesta che con movimento spiralico aspirano lo sguardo dello spettatore in una sorta di vertigine. Il punto di vista dall’alto viene montato con uno frontale, dove i gorghi si fanno onde. Nessuna continuità di movimento dello sguardo, né organicità di raccordo visivo e spaziale. Si opera per stacchi e per montaggio di punti di vista eterogenei all’interno dell’immagine stessa. La grande onda sulla sinistra (che richiama quella di Hokusai) si infrange sulle rocce, e poi in lontananza gli uccelli marini in volo proseguono la cresta dell’onda, rallentandone l’irruenza, fino a che non si giunge alla linea di orizzonte, la costa, dove il mare è calmo e il paesaggio si stabilizza. Ma se in Hokusai l’irruenza del mare e l’impetuosità delle onde non si arrestano e misurano l’inermità degli uomini nelle loro barche indifese, in Hiroshige no: il paesaggio all’orizzonte riposa, il retropiano raccoglie e stabilizza. La vertigine si placa, la linea curva dell’onda si fa retta o dolcemente ondulata nel movimento delle colline. Si tratta di Awa. I gorghi di Naruto, una delle stampe più famose di Hiroshige.
Lo stesso tema, ma in una forma perfino più serafica (assenza di colori vividi, e dominanza di celeste chiaro e di bianco), lo troviamo in Veduta dei gorghi di Naruto ad Awa. Le spirali bianche dei gorghi viste dall’alto si trasformano gradualmente (anche qui assumendo un altro punto di vista, montato nell’immagine) in un mare che si fa via via più calmo fino alle due vele che tranquillamente solcano l’acqua, e all’orizzonte che stabilizza lo sguardo nelle montagne frontali via via più alte, e lo pacifica nel bianco dove sfuma in lontananza il promontorio.
Ed ancora paesaggi innevati, dove il biancore della neve diventa risuonare del silenzio, o attraversati dalla nebbia che rende tutto informe e sfumato, o tempestati da una pioggia statica come in Ohashi. Acquazzone ad Atake (ripreso da Van Gogh nel Ponte sotto la pioggia), dove emergono altri due elementi tipici di Hiroshige: i ponti che attraversano obliquamente i paesaggi, facendone parte, e i viandanti, che si inscrivono essi stessi nel paesaggio, divenendone aspetti, pietrificati. All’opposto della pittura occidentale non si tratta qui di accedere al movimento, si tratta di arrivare alla stasi. Per cui la distribuzione di figure umane nel paesaggio non definisce tanto, come spesso si dice, un accordo armonico tra l’uomo e la natura, quanto il giungere ad espressione della natura stessa, incluso l’uomo, senza che questa espressione sia istituita da un punto di vista, né pragmatico né semantico. E dunque da alcuna soggettività.
Il paesaggio in Hiroshige è un piano impersonale, che appaia natura e uomo, sottraendoli ad ogni relazione, persino quando la si immagini in forma empatica. Il paesaggio non è effetto della proiezione di uno stato d’animo, di una Stimmung, del soggetto sulla natura (come lo era per i romantici). Il paesaggio nei “mondi fluttuanti” è la forma in cui l’essere della natura e dell’uomo, resi indistinguibili dal lavoro delle forme, giungono ad espressione riconsegnati in modo contemplativo: l’azione effettiva o potenziale viene destituita di ogni ruolo.
Passando per vortici e marosi, o anche attraverso scrosci d’acqua “immobili”, incorporando punti di vista inassegnabili, ostruendo linee di fuga, istituendo attraverso il primo piano (del ramo) la prossimità di una distanza, il paesaggio, nell’arte di Hiroshige, è l’essere del mondo che sta presso di sé, non chiedendo altro. Ed è proprio il livello alto di codificazione dell’espressione e di ritualizzazione dei comportamenti, che troviamo nell’ukiyo-e, ad essere segno della destituzione radicale di ogni istanza soggettiva e volontaristica.
Quella che viene restituita come l’integrazione dell’uomo nella natura non è altro che il farsi paesaggio dell’uomo stesso, il suo disporsi in un ambiente e in una natura che quale che siano le forze che l’attraversano si dispone ad una forma contemplativa, sospendendo ogni prassi.
«L’essere, en état de paysage, è sospeso e reso inoperoso, e il mondo, divenuto perfettamente inappropriabile, va per così dire al di là dell’essere e del nulla». Queste parole di Agamben (2017, p. 86) sembrano le più appropriate a restituire ciò che è profondamente in gioco nei paesaggi di Hiroshige e del “mondo fluttuante”.
E ci permettono di capire perché tali immagini hanno esercitato un loro così decisivo, profondo e duraturo effetto in Europa dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi, sugli artisti e non solo (come si vede dalle numerose pubblicazioni e dal grande riscontro che le mostre su Le Japonisme hanno avuto e continuano ad avere).
Nulla di esotico in tutto questo, ma qualcosa di più radicale. In quella forma d’espressione c’è un modo d’essere che riposa nel paesaggio e nel suo stato “contemplativo”. Una forma che fa emergere un’ontologia diversa da quella occidentale, costruita intorno alla prassi e alle imputazioni ad essa connesse (private e pubbliche). Disinnescare questa logica, destituire la forma strumentale del rapporto con il mondo, far sì che il mondo sia, lasciarlo essere (dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande) è ciò che significa farne paesaggio. Van Gogh in una lettera al fratello Theo lo dice nel modo più intenso:
Se studiamo l’arte giapponese, vediamo un uomo indubitabilmente saggio ed intelligente, che passa il tempo a far cosa? A studiare la distanza della terra dalla luna? No. A studiare la politica di Bismarck? No. Studia un solo filo d’erba. Ma questo filo d’erba lo porta a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni, i grandi aspetti del paesaggio, e infine gli animali, e poi la figura umana.
L’erba è la vita, la sua origine, senz’altra spiegazione: «Un bimbo disse, Cos’è l’erba? Portandomene a piene mani / Come rispondere al bimbo? … Cosa sia ne so meno di lui / Immagino debba essere la bandiera della mia indole, intessuta della verde stoffa della speranza». Nel più grande poeta americano, Walt Whitman (2017, p. 71), nel grande Paese che ha fatto dell’azione la categoria fondativa delle sue forme di vita, anche lì durante l’ascesa della borghesia, dei suoi affari e del suo potere (come avveniva nella Edo di Hiroshige o nelle grandi capitali europee), anche lì c’è il canto di una natura senza spiegazione, nel quale si ritrovano le forme di un’ontologia alternativa a quella dell’azione e del principio di identità ad essa connesso.
E il cinema in tutto questo? Il cinema, che ha saputo incarnare meglio di altre arti questa eredità del moderno, si è misurato fin dalle origini con il paesaggio. Non solo l’Ejzenštejn di La natura non indifferente, che ha ritrovato sempre in Oriente, ma nell’arte cinese, le leggi di composizione della “musica del paesaggio”, ma anche un autore come Ozu per il suo rapporto diretto con l’estetica dell’ukiyo-e. Non è un caso che Deleuze collochi Ozu alle origini del cinema moderno per l’invenzione di immagini ottico-sonore pure, svincolate da una logica dell’azione. Le situazioni ordinarie, come anche i paesaggi, diventano in Ozu «contemplazioni pure» o «stasi» (come le ha chiamate Paul Schrader), senza fuoriuscire dall’ordinarietà: «Lo splendore della Natura, di una montagna innevata ci dice soltanto una cosa: tutto è ordinario e regolare, tutto è quotidiano!» (Deleuze 2017, p. 20). E sono anche le ragioni per cui Ozu è nel cuore di alcuni grandi registi della modernità cinematografica, tra i quali Wenders, che quando realizza il suo omaggio, Tokyo-Ga (1985), parla del cinema di Ozu come della “cosa più vicina al Paradiso”.
È questa idea di “contemplazione” che il cinema di Ozu, ereditando della tradizione del “mondo fluttuante”, incarna, portando alla luce l’essenza del cinema stesso, nel momento in cui è capace di sospendere la prassi e restituire l’immagine alla sua potenza di fare-paesaggio. Mettendo in questione quello che in Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, Heidegger fa dire al Giapponese nel suo dialogo con l’Interrogante, e cioè che «il mondo orientale e il prodotto tecnico-estetico dell’industria cinematografica sono tra loro inconciliabili» (Heidegger 1988, p. 95). Ma qui il film in questione è Rashomon (1950) di Kurosawa: un esempio dell’«onnicorrodente processo di europeizzazione» (ivi, p. 94), una dinamica d’azione esplosiva, frammentata e ricostruita attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista dei personaggi.
Esattamente l’opposto delle rive dei fiumi, dei rami degli alberi, delle onde, dei gorghi, dell’essere viandanti, dell’attraversare ponti, del contemplare la luna. Esattamente l’opposto del farsi paesaggio della natura e dell’uomo. L’opposto di quel qualcosa che si avvicina alla felicità.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Milano 2017.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.
M. Heidegger, Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in Id., In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 2014.
W. Whitman, Foglie d’erba, Feltrinelli, Milano 2017.