Siamo una specie animale decisamente ingombrante. È il minimo che si possa dire della specie Homo sapiens, la specie dell’antropocene e del climate change. Essere una specie ingombrante significa, in termini metafisici, essere una specie che pensa sé stessa come l’unico Soggetto in circolazione, e che invece pensa (in modo del tutto inconscio) tutto il resto del mondo (compreso il sole e i pianeti, per ora) come un immenso Oggetto a propria disposizione, ossia, essenzialmente, come materiale da costruzione. E questo vale per il californiano che consuma ogni giorno, in media, 315 litri di acqua quanto per l’indigeno della foresta amazzonica che ha un’impronta ecologica praticamente nulla. Attualmente la specie umana “plasma” quello che considera il suo ambiente su una scala infinitamente maggiore dei cambiamenti che altri animali, si pensi alle dighe dei castori ad esempio, riescono a fare. Il mondo è letteralmente il “nostro” mondo. Il paesaggio è il risultato di questa operazione: ridotto ad una formula elementare, paesaggio = natura + azione umana.
Per un italiano il caso tipico di paesaggio, quello che viene subito in mente, è il paesaggio toscano, dove è affatto evidente come l’azione di generazioni e generazioni di azioni e tradizioni umane abbiano modellato un ambiente naturale fino a trasformarlo in uno spazio del tutto umanizzato e riconoscibile. Ma il caso toscano è troppo facile, obietta Serenella Iovino nel suo Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza (Il saggiatore, 2022), dal momento che è un paesaggio anche quello, ad esempio, dell’Irpinia devastata dal terremoto del 1980, oppure quello di Venezia e della laguna, o ancora quello delle Langhe.
Non è la bellezza che definisce un paesaggio, bensì l’intreccio di agentività naturale, azioni umane, politica e storia che finiscono per trasformare uno spazio ‘naturale’ in un determinato paesaggio. In questo senso ogni paesaggio è, come Iovino esplicita nel titolo del suo libro, un paesaggio civile, nel senso che ha a che fare con le storie degli esseri umani che, nel tempo, lo hanno abitato e più o meno intenzionalmente costruito come quel paesaggio. In questo senso, e questa è la tesi fondamentale del libro, «il corpo del paesaggio, insieme a tutti i corpi» che lo popolano, costituisce «un testo, un grande racconto materiale» (Iovino 2022, p. 11).
In che senso possiamo dire che i paesaggi siano dei testi? Un testo è qualcosa che può essere letto: un libro, una scritta su un muro, uno spartito musicale, una poesia, una fotografia, un film, una pièce teatrale. Ma «testo» può anche essere altro: per esempio, la tessitura materiale di significati, esperienze, processi e sostanze che compongono la vita di esseri e luoghi. Un testo, in questo senso, emerge dall’incontro di azioni, discorsi, immaginazione ed elementi fisici che si coagulano in forme materiali. I paesaggi sono testi, e anche i corpi lo sono. Sono testi perché attraverso di essi possiamo leggere le storie di relazioni sociali e rapporti di potere, equilibri e squilibri biologici, il concreto prendere forma di spazi, territori, vita umana e non umana. Parlare del paesaggio come un testo in cui sono scritte storie non è una semplice metafora: in fondo, gli esseri umani sono animali narrativi e il primo racconto che hanno immaginato e conosciuto è proprio il paesaggio (ivi, pp. 11-12).
Il paesaggio parla, ci parla, nello stesso tempo in cui noialtri umani parliamo del paesaggio, e parlandone lo trasformiamo e lo adattiamo alle nostre esigenze. La metafora, che come Iovino precisa è più di una metafora, del paesaggio come testo permette di pensarlo come un luogo di scambio e contrattazione, dal momento che il senso di un testo è inseparabile dalle operazioni interpretative attraverso cui quello stesso senso viene individuato e costruito. Un senso che non viene arbitrariamente sovrapposto al mondo naturale da parte degli “interpreti” umani perché anche la natura ci “dice” come vorrebbe essere interpretata. Un testo, cioè, non è un oggetto inerte, è piuttosto un luogo di scambio e relazione, di azioni e risposte, di scontri e pacificazioni. Ma questo significa che non esiste un solo modo di interpretare un testo:
Abitare è, cioè, interpretare il luogo in cui si è, dal paese al pianeta. Un’interpretazione corretta del testo del luogo, una lettura appropriata e per quanto possibile fedele, lo fa vivere meglio, e fa vivere meglio chi lo abita. Un’interpretazione falsata o capziosa, invece, quel luogo‑testo lo insidia, lo tradisce, lo fa esplodere: e con esso, tutto ciò che in quel luogo dimora, inclusi gli umani. Il testo in questione, infatti, non è inerte ma attivo, come un corpo che funziona secondo le sue leggi (ivi, p. 13).
Considerare il paesaggio come un testo permette allora da un lato di abbandonare il dualismo metafisico che separa il soggetto umano da una parte e l’oggetto naturale dall’altro; permette anche finalmente di considerare la natura come un agente che produce senso e che non è destinata ad essere soltanto il recettore passivo di un senso prodotto altrove. La natura, appunto, parla, e solo ascoltando quello che ha da dirci potremo riuscire a stabilire una reciproca convivenza. Si tratta di una tesi che si inserisce all’interno di quella che, con Vattimo, viene definita «ontologia ermeneutica».
Come scrive lo stesso Vattimo in Al di là del soggetto, per «ontologia ermeneutica» si intende sia «un sapere dell’essere che parte da una ricostruzione smascherante delle origini umane troppo umane dei valori e degli oggetti supremi della metafisica tradizionale»; sia una «teoria delle condizioni di possibilità di un essere che si dia esplicitamente come risultato di processi interpretativi». Non solo gli esseri umani, con i loro discorsi e le loro azioni, interpretano il mondo, ma è il mondo stesso ad essere il risultato di questi discorsi e di queste interpretazioni. Serenella Iovino rende ancora più radicale questa tesi, dal momento che nella sua prospettiva anche la natura partecipa al processo di costruzione del senso di quello che poi diventerà, storicamente, il paesaggio civile.
Il nostro modo di leggere il corpo del mondo come un testo è importante. Implica una riflessione sul ruolo della cultura nel predisporre strumenti con cui guardare nei grovigli di materia, forze impersonali, responsabilità umane e le sofferenze di persone e ambienti. Leggere il mondo come un testo, e dare interpretazioni accurate di questa testualità, non è solo cruciale per la salute degli ecosistemi e dei paesaggi, ma è anche la chiave perché la giustizia cognitiva si trasformi in pratica politica: in una forma sociale di liberazione (ivi, p. 106).
Quest’ultimo è un punto che sta molto a cuore a Iovino: il paesaggio come testo è prima di tutto un campo di forze politiche ed ecologiche, e quindi di cambiamento. Se il mondo è un testo allora il suo senso non è predeterminato, non è già da sempre fissato (non c’è niente di naturale nella natura), al contrario, è mobile e storicamente variabile. Se la natura, a suo modo, “parla” – questo vuol dire «ontologia ermeneutica», che anche la natura, e non solo gli esseri umani, parlano, agiscono e producono senso – occorre imparare a prestare ascolto ai suoi “discorsi”. Non siamo i soli a prendere la parola, e quindi il nostro volere non è l’unico in circolazione, ci sono volontà e desideri oltre che umani di cui tenere conto tanto quanto – e forse, nell’epoca del global warming, anche di più – di quelli degli esseri umani. In questo senso Paesaggi civili è un libro sostanzialmente ottimista, e sappiamo quanto abbiamo bisogno di ottimismo di questi tempi:
Forse la Natura, ammesso che esista, è spietata e indifferente, come l’enorme signora di Leopardi, seduta contro una montagna, in un angolo sperduto della terra. O forse è l’antitesi dello Spirito di cui favoleggiavano gli idealisti: inconsapevole, meccanica, persa fuori di sé, semplicemente altra. Ma la natura‑cultura – il mondo di cui siamo e in cui dimoriamo – deve essere benevola e compassionevole. Deve essere umana. Deve tirare noi – tutti noi – fuori dalle macerie e lasciarci mostrare le nostre ferite. Deve portarci all’aperto, indicarci le stelle, chiamarci per nome (ivi, pp. 172-173).
Il mondo come testo, tuttavia, cioè il mondo come linguaggio e senso, non corre il rischio di non smettere di essere un mondo ancora troppo umano, o meglio, troppo umanizzato? Se il mondo è un testo è un mondo che non solo si lascia comprendere, ma anche desidera di farsi comprendere, perché ogni testo non è che un appello alla comprensione e al riconoscimento. Non c’è, nella natura, invece, una potenza estranea ad ogni senso, una potenza che le nostre parole e i nostri pensieri non riescono nemmeno a scalfire? Come scriveva Gianni Carchia nella natura si mostra un enigma incomprensibile, un enigma che proprio perché incomprensibile e indifferente ai nostri tentativi di scioglierlo ci attira in modo irresistibile:
Questa struttura dell’enigma ci pone in presenza così di qualcosa come una sorta di doppio movimento dello spirito che solo apparentemente è contraddittorio. Da un lato, dunque, l’avvertimento di un’estraneità, di una lontananza; ma, insieme, e nello stesso tempo, il sentimento che questo estraneo è ciò che ci è massimamente proprio, che questa lontananza è ciò che è massimamente interiore. Ecco, insomma, il sentimento di un non-umano come di ciò che è più vicino alla nostra essenza. Non c’è paesaggio che non sia accompagnato dalla consapevolezza della sua demonicità.
Non sarà, allora, che ciò che più ci attira nel paesaggio civile è la sensazione perturbante che invece è sempre sul punto di trasformarsi in un paesaggio terribilmente inumano?
Riferimenti bibliografici
G. Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in “Quaderni di Estetica e Critica”, n. 4-5 (1999/2000).
G. Vattimo, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1984.
Serenella Iovino, Paesaggio civile. Storie di ambiente, cultura e resistenza, Il saggiatore, Milano 2022.