Orlando è il nome di un fuori. È il nome di un uomo che vive fuori dal tempo, o almeno dall’oggi, in un luogo – la campagna reatina – che un fuori lo è, proprio come chi lo abita. Il film di Daniele Vicari si colloca esattamente in questo altrove: in uno spazio che raramente è stato raccontato, forse perché troppo prossimo a Roma, teatro di gran parte delle storie che hanno reso celebre il cinema italiano del dopoguerra. Fin dalle prime inquadrature, invece, Orlando rivendica una sua appartenenza precisa, che indica allo spettatore la posizione a partire dalla quale leggere tutto il film. Per prima cosa, questa appartenenza implica la presa in carico di una tradizione cinematografica. E non c’è dubbio che, soprattutto nei confronti di certo cinema neorealista, Vicari dichiari esplicitamente il proprio debito: La Ciociara di Vittorio De Sica e Non c’è pace fra gli ulivi di Giuseppe De Santis (entrambi girati in un’altra provincia laziale) fanno parte di una genealogia cinematografica che il film costruisce e di cui partecipa, a partire dal racconto di una relazione parentale, in questo caso intesa in senso letterale, come quella fra un nonno e la nipote che addirittura ignorava di avere.

Una telefonata – che annuncia le cattive condizioni di salute di suo figlio – arriva inaspettata a rompere la quotidianità di Orlando che è costretto a partire per Bruxelles, dove Valerio si è traferito, contro la sua volontà, molti anni prima. Arrivato in Belgio, Orlando scopre che suo figlio, del quale da tempo non aveva notizie, è divenuto nel frattempo padre a sua volta. Ad attenderlo, Orlando trova un mondo intero che non poteva neppure immaginare e che gli è radicalmente estraneo. Per lui, che parla unicamente nel suo dialetto, il cuore politico dell’Europa è un mondo che non riesce a comprendere e che a sua volta non lo comprende. Ancora prima di scendere dal treno che lo ha portato fino a Bruxelles, una poliziotta gli chiede di mostrarle i documenti: Orlando la guarda con l’aria attonita di chi chiaramente non capisce cosa stia succedendo, poi finalmente le porge una carta d’identità che si scopre scaduta.

Quando esce dalla stazione e comincia a vagare per la città alla ricerca della casa di Valerio, lo vediamo camminare come soltanto un uomo solo, in un posto che non conosce, potrebbe fare. In pochi altri momenti come questo, l’inquadratura si allarga e include, in quanto polarità dialetticamente opposta alla presenza costante della figura di Orlando all’interno dell’inquadratura, il profilo della città; come accade, per esempio, quando, dopo aver seguito l’uomo mentre fa uno dei tanti lavori trovati per sopravvivere, piegato quasi su se stesso, la macchina da presa si muove, abbandona per un secondo Orlando, e poi subito si sofferma a mostrare per qualche attimo la città, così come appare dalle finestre di un grattacielo: lontana, quasi imprendibile e senza un confine preciso. È lì che l’incedere della macchina da presa si concede la profondità necessaria per tirare un respiro.

Molto più spesso, al contrario, l’occhio del regista rimane a ridosso del suo personaggio, come in un film dei fratelli Dardenne, autori che fanno parte certamente dell’immaginario cinematografico che Orlando sa sollecitare. Fosse anche soltanto perché è girato in Belgio e per l’interpretazione di Fabrizio Rongione, attore feticcio dei Dardenne, che qui è uno degli assistenti sociali che segue il caso di Orlando e di sua nipote. Orlando è prossimo, sotto molti aspetti, a Rosetta: entrambi sono, per dirne una, esempi di un cinema fatto, prima di ogni altra cosa, di respiri, gesti, espressioni attraverso cui rappresentare nient’altro che un pezzo di vita, mentre accade.

Non è infatti alle parole (o non soltanto a queste) che il film affida il racconto dell’appartenenza di Orlando a un irriducibile altrove. Di sé stesso Orlando dice di essere uno che parla solo se ha qualcosa da dire. A dire molto di lui, però, ci pensano il suo corpo, la sua rudezza antica, i suoi gesti essenziali: il modo in cui Orlando accende e poi fuma una sigaretta, quello in cui prepara una cena frugale e la mangia, e infine esausto si addormenta. Sono questi gesti la materia con cui è costruito il film di Vicari, e che la macchina da presa mostra nel dettaglio, vicino com’è al suo attore, ancor prima che questo diventi personaggio, grazie a un lavoro complicato che punta alla fusione perfettamente riuscita fra i due. Michele Placido diventa Orlando perché a lui presta senza riserve il suo corpo, stanco e appesantito dagli anni, in modo che persino la sua voce, il suo modo di parlare, acquistino la concretezza e tangibilità della materia di cui è fatta la carne.

Il fatto che molti personaggi del film indossino una mascherina non è soltanto il segno dei tempi in cui viviamo, un’indicazione a leggere al presente la storia che si racconta, benché Orlando sembri provenire, oltre che da un luogo, anche da un tempo lontanissimo. Piuttosto, l’uso della mascherina – nei confronti della quale Orlando mostra, non a caso, una certa, ostinata, resistenza – sembra funzionale a ribadire l’assoluta centralità nel film dei gesti e delle espressioni, più ancora che delle parole. La maschera, che negli anni della pandemia ci è stato imposto di indossare, non ci ha privato della parola, ma certamente ci ha sottratto una porzione importante delle nostre espressioni facciali e ha reso illeggibili – fino addirittura ad annullarle, forse – le emozioni che attraverso di esse passano. Nel film parlano, usando correttamente la mascherina, gli uomini e le donne delle istituzioni: la poliziotta che accoglie Orlando a Bruxelles, la funzionaria del Consolato, gli assistenti sociali. La loro parola, freddo strumento della legge, non ha bisogno di un volto per essere pronunciata. Per la stessa ragione per cui un intero mondo sembra a proprio agio quando indossa la mascherina, Orlando non può che esserle ostile: perché la sua voce vive solo nel suo corpo.

Dentro lo spazio filmico, la mascherina costituisce un vero e proprio fuori campo interno all’immagine, che occulta allo sguardo dello spettatore una parte importante del lavoro di messa in scena: il volto dell’attore, appunto, che invece, proprio grazie a questo stesso lavoro, finisce per essere esattamente il centro a cui conducono tutte le forze che attraversano e costruiscono il racconto. Per questa via sottrattiva, Orlando (il film e il suo protagonista insieme) ci indica esattamente dove e cosa guardare, di cosa andare alla ricerca, che è ancora una volta, letteralmente, un fuori.

Su queste stesse premesse si costruisce il rapporto fra un uomo anziano e una ragazzina preadolescente: non sulle cose che riescono a dirsi, che possono solo aumentare le incomprensioni fra loro e portarli fino al punto di allontanarsi definitivamente, ma sui gesti che riescono a scambiarsi e che, al contrario sono il solo modo che i due hanno per avvicinarsi. È un percorso accidentato il loro, che non può essere garantito da nessun discorso, neppure quello più razionale: Orlando deve prendersi cura di sua nipote perché è il solo a poterlo fare. Il punto non è prendersi cura di Lyse, ma come farlo: portandola con sé in Italia, rimanendo a vivere in Belgio, affidandola a una famiglia che la accolga meglio di quanto sa fare lui. È su queste possibilità, tutte plausibili sul piano discorsivo che i due si separano, perché non possono comprendere l’uno le ragioni dell’altra.

Ma è su altro che la loro relazione si stabilisce, sulla potenza dei gesti che i due riescono a condividere, come quando Orlando si mette a suonare l’organetto in strada e la ragazza prende in mano un cappello e ballando comincia a fermare i passanti, per chiedere qualche soldo. Sono gesti inaspettati, a volte incomprensibili, del tutto ingiustificati persino, dal punto di vista narrativo. Per questo richiedono, a chi li compie e a chi come noi assiste, un incondizionato atto di credenza, proprio come quello che abbiamo accordato ai due coniugi di Viaggio in Italia, la cui riunione finale appare quasi come un miracolo. Niente può garantire, anche qui, il rapporto fra Orlando e sua nipote se non un azzardo, che poi è la vita stessa.

Orlando. Regia: Daniele Vicari; sceneggiatura: Andrea Cedrola, Daniele Vicari; fotografia: Gherardo Gossi, montaggio: Benni Atria, interpreti: Michele Placido, Angelica Kazankova, Fabrizio Rongione, Federico Pacifici, Denis Mpunga, Christelle Cornil, Lola Deleuze, Chiara Scalise, François Neycken, Celine Andrè, Daniela Giordano; produzione: Marica Stocchi, Joseph Rouschop; distribuzione: Europictures; origine: Italia, Belgio; durata: 122′; anno: 2022.

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