raggio verde

Quando leggiamo non osserviamo a uno a uno i caratteri di stampa perché ci metteremmo troppo tempo. Ci limitiamo a prelevare qualche tratto di inchiostro e completiamo in modo più o meno arbitrario: a-c-q…“acqua!”. Più in generale, sapere in anticipo come sono fatte le cose ci risparmia la fatica di prestare attenzione a ciò che abbiamo sotto gli occhi. Alcuni vengono pagati per farlo, sono i giornalisti. Ma a chiunque può capitare che la percezione rimanga annebbiata dal ricordo e dall’immaginazione. Finche vivono, le persone si muovono dentro la colla dei nostri pensieri, la loro esistenza è più mentale che reale. Maggiore è la consuetudine, tanto più gli altri sono prevedibili e ci stizziscono, non gli perdoniamo di non sorprenderci, anche se la colpa sta in noi. È quando uno muore che cominciamo a vederci chiaro: in poco tempo la sua figura si decanta dai pregiudizi e dall’idea sbagliata che ce ne eravamo fatti. La morte è epochizzante, adesso riusciamo a distinguere ciò che è di Cesare e ciò che gli davamo noi. La morte per prima strappa gli altri alle nostre fantasticherie e ne fa qualcosa di vero, solido, manifesto. Un morto è un foglio che ci costringe a compitare lettera per lettera, è il ricordo che si cancella davanti alla percezione. Se facendolo proviamo un qualche rimpianto è perché non abbiamo saputo vedere nel vivo la realtà e la sincerità del morto, indiscutibili e ultime. In una comunità senza rimpianti accadrebbe di tributare ai vivi la stessa attenzione che meritano i morti: «La morte è inseparabile dalla comunità, perché è attraverso la morte che la comunità si rivela – e viceversa». La comunità rimane ordinata a qualcuno che decide di girare i tacchi e disertare. Qualcuno o qualcosa che ci fa stare attenti. L’unico diritto naturale è la secessione e ce lo abbiamo io, te, il gatto, l’abete, il vento.

Esiste una comunità della secessione, un reticolo che dal cielo si estende al sottosuolo e che i Rishì dei Veda cantavano così: «prà vaya àpa vaya», «fai la tela, disfa la tela!». È la grande conquista teorica degli atomisti antichi, vedere il mondo come un ordito imperfetto, una serie di nodi che si sciolgono mentre si annodano e che Nancy chiama intreccio, Geflecht, rete, contagio, comunità: «Il senso» vale a dire ogni cosa, l’insieme delle cose, «consiste di tessitura ovvero di lavoro a maglia. Il senso è tessile, è la stoffa del senso». Ogni corpo è «il proprio nodo» e allo stesso tempo «il proprio scioglimento». La cosa più triste è quando non capiamo che un nodo per il fatto di essere stretto è già sciolto. Da questa cecità teorica viene la iattura della prassi, la trasformazione della comunità in società. Come ci ha spiegato un altro beniamino degli dei, Roberto Calasso, il nostro è il tempo della pseudomorfosi fra religio e sociale, il primato della società è diventato così assoluto da coincidere con l’ovvietà. Il risultato, di cui facciamo esperienza dentro ogni gruppo, azienda, ufficio, scuola, università, è una forma postrema di collettivismo burocratico (che i babbaloni si ostinano a chiamare neoliberismo). Per pensare adeguatamente l’intreccio serve meno sentimento, più lucidità e durezza, la durezza della materia. La comunione dei forti è siderale, una trama della distanza, stare insieme prodotto da un clinamen e da un rimbalzo, due modi della secessione che poi è un altro nome della materia, l’improgettabile scarto che espone le cose le une alle altre.

Il pensiero di Nancy – nonostante la sua genealogia testualistica o decostruzionistica – è materialista. Mette a fuoco i tratti essenziali della extensio, l’inscalfibilità e la decontrazione, perché la materia – qualsiasi materia – è diamante e aria: «L’“atomismo” rappresenta ciò che bisognerebbe designare come l’altra archi-tesi della filosofia (essendo la prima l’agathón di Platone), o più esattamente, come lo spaziamento originario in quanto materialità. La materia non è lo spessore immanente assolutamente chiuso in sé, essa dapprima, e al contrario, è la differenza stessa per la quale qualche cosa è possibile». Extensio è forse il nome più sbertucciato dalla filosofia del novecento, e invece Nancy ci vede il senso di ogni cosa, l’essere del là che è sempre un laggiù, «lontano, in uno scostamento indeterminato, là davanti distaccato da qui, e verso il quale qui soltanto conduce, soltanto si solleva e si protende».

Essere materialisti vuol dire giocare l’espansione solitaria dei corpi – la radice della comunità – contro la concentrazione dello spirito. Detto in forma gnomica e suggestiva: «Stai sempre attento a toccare ciò che si stacca dal contatto. Stai sempre attento a voler sistemare qualche linea o qualche piano supplementare tra la curva e la sua tangente, qualche punta soprannumeraria, con la sua areola, la sua piccola area, il suo spazio circolare di arealità che segnala dolcemente l’imminenza dell’enigma». L’imminenza dell’enigma è ciò che il collettivismo burocratico si propone di evacuare, riuscendoci benissimo. Torniamo a sperimentarla di tanto in tanto, ad esempio quando uno muore, perché la morte è la cosa più materiale e luminosa che c’è. Come dicevano gli atomisti: la morte separa, ci esclude, fa come lo spazio, non c’è quasi differenza tra lo spazio e la morte che è la forma umana dell’Aussereinandersein. Contro ogni pensiero o fede che chiede di vincere la morte, Nancy afferma che c’è soltanto un tenersi in piedi dentro il sepolcro, «una gloria che vuole deludere e sottrarsi alla tua mano tesa», un metallo brillante e spigoloso. I morti sono oggetto di commemorazione e fantasticheria per una modernità che il disincanto ha portato alla soglia della fessaggine. Invece i morti li sentiamo, li percepiamo meglio dei vivi. Sprofondati nello spazio della distanza ci mandano un saluto che non è soggetto a interpretazione. È dai morti che impariamo a raccoglierci nel casus di una esposizione reciproca, davanti a loro e davanti ai vivi.

Le cose si espongono, si toccano e si mancano, stanno vicine e si fraintendono, fanno esperienza, sono sensate. Non c’è bisogno di essere uomini per fare mondo. Nancy lo ha detto molto prima che questo pensiero diventasse di moda: una pietra non ha mano né cervello ma tocca la terra, ferisce il mio piede, ostacola l’insetto oppure fa ombra. La pietra prende l’acqua e se la fa scivolare addosso, così annoda/scioglie il reticolo cui appartengono le altre superfici. Tale è la chiarezza dell’enigma, la durezza della lýsis, l’impenetrabilità dell’esposizione. Tutte le cose lo fanno, ma gli uomini quando sono fra di loro fingono di non saperne nulla e per farsi coraggio si raccontano delle storie. Barattano l’enigma con il piacere poliziesco della “trasparenza”. Per tornare a essere nel vero, nuovamente stringere e slacciare i propri nodi, essere come le altre cose, gli uomini hanno bisogno della morte.

Non voglio ricordare Jean-Luc Nancy. Voglio sentire le sue parole che con nuova chiarezza toccano e abbandonano, l’esattezza di un pensiero che mi stringe e libera.

Jean-Luc Nancy, Bordeaux 1940 – Strasburgo 2021.

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