Credo che la miglior cura, nei momenti in cui capita di sentirsi depressi, sia vedere e rivedere la sequenza della sfida tra le due squadre, dei fratelli  ballerini e dei loro rivali, in Sette spose per sette fratelli, che Stanley Donen diresse nel 1954. Raramente è stato raggiunto a mio parere, anche nel musical, un tale grado di precisione, ritmo e sfrenato dinamismo nel movimento coreografico, tra gestualità e musica, incredibili acrobazie e improvvisi arresti, armonia e agonismo, vitalità dei corpi e agilità della macchina da presa. Dunque, ci colpisce particolarmente la notizia della sua scomparsa, avvenuta questo 21 febbraio in New York, all’età di 94 anni – anche se da tempo non girava più film, anche se era sopravvissuto, in senso cronologico, a quasi tutti i suoi attori, da Gene Kelly a Fred Astaire, da Audrey Hepburn a Cary Grant, e tanti altri.

Godard sosteneva, almeno in un certo periodo della sua attività, che il cinema fosse “la verità 24 fotogrammi al secondo”, e tradizione vuole che Donen rispondesse “no, il cinema è menzogna 24 fotogrammi al secondo”: menzogna che aiuta a vivere, però, menzogna o meglio finzione, esaltazione della vita oltre i confini della morte, non per dimenticarla ma per sfidarne il potere a viso aperto. Nella loro intrinseca coesistenza, film, danza e musica, facendo spettacolo, coreografia dello spettacolo, danno l’illusione di superare il trascorrere inesorabile del tempo cronologico, di cogliere, se non l’eternità dell’Aion, almeno certi momenti privilegiati del Kairos, altrimenti sfuggenti.

A un certo punto di Così parla il cuore (1954), biografia romanzata del compositore Sigmund Romberg, Donen fa dire al suo personaggio: “Entrai nel mondo dello spettacolo che, come dice il mio amico Irving Berlin, è l’unico mondo vivibile”. Potremmo tranquillamente sottoscrivere tale asserzione, sostituendo magari “vivibile” a “possibile”. Il mondo dello spettacolo, almeno nella concezione di Romberg, di Irving Berlin, di Cole Porter, di Donen, come di Minnelli o di Blake Edwards, non è un mondo escapista, fatto di vani sogni e ridicole illusioni  – è la sfida orgogiosa e disperata degli umani alla morte, in nome di qualcosa che va oltre l’umano.

La coreografia dei corpi, in contrappunto con quella della macchina da presa, giunge alla loro trasfigurazione, per non dire alla loro reinvenzione. Donen reinventa filmicamente il corpo di Gene Kelly, il suo atletismo muscolare-spirituale, a partire da On the Town (1949), passando per Singin’ in the Rain (1952), così come Vincente Minnelli aveva inventato Judy Garland (e Liza Minnelli). Reinventa Fred Astaire in Royal Wedding (1951), facendolo letteralmente arrampicare sulle pareti e sul soffitto d’una stanza, e più tardi, quando Fred era più anziano, in Funny Face (Cenerentola a Parigi, 1957). Reinventa Audrey Hepburn, sempre in Funny Face, operandone la trasformazione filmica da brutto anatroccolo in meravigliosa farfalla, poi in Sciarada (1963), dove si mostra il talento del regista anche nei confronti della commedia a sottofondo “giallo” e in Due per la strada (1967), commedia on the road. Reinventa Cary Grant, ancora in Sciarada, e Gregory Peck in Arabesque (1966), dove utilizza al meglio anche Sofia Loren.

Qui sono i corpi, specialmente quello di Gene Kelly, oltre alla regia, al montaggio, alla sceneggiatura ecc., i veri materiali dell’autore. È il loro trattamento, sono le particolarità della loro trasfigurazione a fare di Donen un autore a tutti gli effetti, malgrado l’evidenza della macchina hollywoodiana che lo sostiene. Non a caso Edoardo Bruno aveva sottotitolato “Resistere all’evidenza” il volume da lui curato nel 1999, dedicato al regista: resistere all’evidenza della pur necessaria collaborazione di capacità e talenti diversi, ma anche all’evidenza della gravità, del peso, dell’inerzia che tende a trascinare verso il basso.

Resistere (perché no?) anche a forza di trucchi, “menzogne” e ingegnose invenzioni, come nel già citato Royal Wedding. Il numero-clou del film è senza dubbio l’assolo di Fred Astaire nella sua camera d’albergo a Londra, durante il quale balla senza soluzioni di continuità sul pavimento, sulle pareti e sul soffitto della stanza, realizzando il sempre agognato trionfo della danza sui limiti imposti dalla legge di gravità. Si sa che gli scenografi della MGM (Cedric Gibbons e Jack Martin Smith) apprestarono per l’occasione un vero e proprio cannocchiale rotante, un teatro ottico, una macchina architettonica mobile, cerchiata da una cornice cui era fissata solidalmente la macchina da presa (con l’operatore), arredata con mobili e oggetti fissati al pavimento, al soffitto, alle pareti.

Ad ogni giro, senza che gli spettatori possano rendersene conto, il soffitto si trova  a prendere il posto del pavimento, e viceversa, mentre Astaire, ovviamente, balla sempre su un piano orizzontale che lo sostiene. Ingegnoso marchingegno d’inganno ottico, il cinema esalta il movimento visibile della danza, utilizzando il movimento invisibile e solidale della scenografia in assonanza con la macchina da pesa. La scatola ottica rotante lascia percepire, sullo schermo, molto meno di quanto in realtà sia accaduto durante le riprese (fino a un’illusione d’immobilità), mentre la danza di Fred Astaire, che sul set era già ammirevolmente acrobatica, assume addirittura i caratteri dell’impossibile. È come se si realizzasse sotto i nostri occhi ciò che oscuramente noi spettatori avevamo sempre sospettato, cioè che Fred Astaire fosse capace di ballare capovolto, appeso al soffitto.

Donen maestro del musical cinematografico, dunque? Si, ma anche maestro della commedia sofisticata, virtuoso dei dialoghi scintillanti, filmati in un modo di non lasciare alcuno spazio al cosiddetto “teatro filmato”. Ha scritto Edoardo Bruno in Pranzo alle otto: forme e figure della sophisticated comedy: «Il dialogo diviene […] occasione di un gioco di scena che non ha niente a che fare con il gioco teatrale; il montaggio spezza l’azione: i campi, i controcampi, i primi piani e i dettagli come pure il muoversi degli attori, inseguiti dalla macchina da presa, costruiscono uno spazio e un tempo diversi» (Bruno 1994, pp. 51-52). Specialmente (ma non solo) nell’ultimo Donen, questo spazio e questo tempo diversi, possono anche assumere una seppur leggera velatura di malinconia: la catena del Tempo, malgrado tutto, porta via anche i corpi amati.

Riferimenti bibliografici
C. Salizzato, Ballare il film, Savelli, Roma 1982.
E. Bruno, Pranzo alle otto: forme e figure della sophisticated comedy, il Saggiatore, Milano 1994.
E. Bruno, a cura di, Stanley Donen – Resistere all’evidenza, Castoro cinema, Milano 1999.

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