Il problema non è quello della libertà, ma d’un’uscita.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka.
Per una letteratura minore

A Ciambra (Carpignano, 2020).

Com’è noto è in Calabria che sta maturando la “nuova” Italia. L’immagine della Calabria, nella rappresentazione mediatica italiana, è polarizzata: criminalità organizzata (‘ndrangheta) da un lato, “eccellenze” alimentari e turistiche dall’altro. Qui non è importante stabilire se sia vero o no che la Calabria è essenzialmente criminalità, speculazione edilizia, ceto politico disastroso, sanità al collasso, trasporti difficili e così via. Oppure, e questo non è che il semplice rovesciamento di questa prima immagine, boschi incontaminati, peperoncino, cipolla rossa, tonno, mare e sole estivo. Si sta parlando di immaginario, non della realtà (ammesso, tuttavia, che sia possibile distinguere facilmente il primo dalla seconda; la questione è tutta qui).

La Calabria è interessante perché Calabria vuol dire, essenzialmente, sud. Ora, è difficile negare che nel dibattito culturale e politico italiano il sud è completamente scomparso. Se non, appunto, per evocare la criminalità organizzata, oppure l’eterna lamentela sulla “fuga dei cervelli” verso il nord. Una rappresentazione che deve moltissimo, ovviamente, all’auto-rappresentazione che lo stesso sud propone di se stesso. Che infatti si racconta a partire da questa polarità. Si pensi a quanti articoli e servizi televisivi che si occupano del sud partono dalla congiunzione nonostante: “nonostante tutti i problemi del sud, anche nel sud ci sono eccellenze…”, segue il racconto di una impresa industriale che “investe” su un prodotto locale, oppure un (raro) esempio di buona sanità, e così via. La premessa, implicita o esplicita, è sempre che al sud le cose vanno male. Tuttavia la gente del sud è tenace, e già si vedono qua e là dei segni di ripresa. Lo schema è sempre questo. Per non parlare dell’orgoglio calabrese, condensato dalla ricorrente espressione “la nostra Calabria”, che si sente ripetere in continuazione. Una formula che in realtà mette i brividi, basta vedere come devono amare la loro Calabria quelle amministrazioni pubbliche che hanno permesso le metastasi edilizie che cominciano da Scalea e arrivano fino a Reggio Calabria. Il punto è proprio questo, si parla della Calabria, e subito non si può non cadere in questa polarità (come capita anche a queste note, peraltro). La Calabria è congelata dentro una immagine che è vera, sicuramente, ma è vera come possono essere vere tutte le immagini. Attenzione, però: non si sta sostenendo che sotto questa immagine ci sia una non meno fantomatica vera Calabria.

Si tratta di raccontare la Calabria a partire da una premessa completamente diversa. La Calabria è il nuovo di un Paese, l’Italia, vecchio e invecchiato. Il nuovo. Com’è noto il nuovo è mostruoso, in senso tecnico, perché mette insieme pezzi di antico, spesso di remoto, con rottami arrugginiti e frammenti presi qua e là. Il nuovo è questa commistione che disturba, proprio perché è nuova, perché lo sguardo è conformista, abitudinario, si affida al già visto per intendere quello che ancora non è stato mai visto. Il nuovo è un concatenamento mai tentato prima, quindi mal fatto, approssimativo, brutto. L’Italia che verrà sta nascendo in Calabria.

Il “nuovo cinema calabrese” racconta questo parto mostruoso. Il nuovo, soprattutto, chiede di essere pensato con categorie altrettanto nuove e altrettanto fastidiose. Altrimenti nel nuovo si vedrà solo il vecchio che non c’è più. Con il risultato che vedendo il nuovo si finisce solo per rimpiangere il vecchio (che peraltro, è noto anche questo, non è mai esistito). Pensiamo a come mostra la Calabria il film di Jonas Carpignano, A Ciambra (2017). Non c’è nessun rimpianto, nessuna denuncia del degrado sociale, nessun giudizio morale. Il romanzo di formazione di un piccolo delinquente, molto simpatico, molto umano, molto detestabile. Intorno una società mostruosa in cui si incrociano arcaicità contadina (le perdute tradizioni nomadi di una comunità rom divenuta stanziale), criminalità organizzata (gestita da quelli che nel film vengono chiamati “gli italiani”), immigrazione più o meno clandestina dall’Africa. Il tutto raccontato in una lingua affatto nuova, un pidgin che forse annuncia l’italiano del domani, che probabilmente non sarà più la lingua di Dante, perché Dante, nel mondo di A Ciambra, non c’è più, ammesso che ci sia mai stato. Un film che non racconta il “degrado” della Calabria, perché “degrado” è un concetto che guarda al passato, a come sarebbe potuta essere l’Italia, e la Calabria in particolare.

La comoda categoria del “degrado”, infatti, serve a chi trova confortante restare dentro l’immaginario, il racconto già mille volte raccontato della ‘ndrangheta, delle coste sfregiate (ci sono cascato anche io, poche righe più sopra), della gioventù “senza futuro” e così via. “Degrado” vuol dire: non ho nessuna intenzione di vedere quello che c’è, mi basta vedere quello che non c’è. Ma A Ciambra non è nemmeno un film realista, un film che voglia documentare la realtà calabrese contemporanea. A Ciambra racconta una storia, mostra un concatenamento mostruoso fra Pio, un piccolo delinquente rom che vive vicino Gioia Tauro, e il giovane africano Ayiva (la storia terribile del suo viaggio dal Burkina Faso a Rosarno è raccontata nel precedente film di Carpignano, Mediterranea, del 2015). Non è un caso che una storia del genere possa, prima ancora che raccontarla, vederla qualcuno come Jonas Carpignano, un italo-americano (padre italiano madre afroamericana) cresciuto a New York. Ci vuole un cervello in fuga (dagli USA alla Calabria) per vedere quello che succede in un posto.

Un altro modo di vedere il nuovo della Calabria e del sud in generale è quello del regista milanese, ma di origini calabresi (altro cervello in fuga, da Milano alla Calabria, e ritorno), Michelangelo Frammartino. Pensiamo ai suoi film Il Dono (2002), Le quattro volte (2010) e Alberi (2013). In questi film vediamo la Lucania di Satriano e la Calabria di Alessandria del Carretto, Caulonia e Serra San Bruno. Il sud di Frammartino non è il sud arcaico e originario di cui parlano a sproposito tanti critici, che non riescono a vedere il sud che attraverso lo schermo del libro di Carlo Levi Cristo si è fermato a Eboli (1945; a proposito, ennesimo cervello in fuga, da Torino ad Aliano, in Lucania; forse ai cervelli non fa così male fuggire). Si pensi ai “romiti”, gli uomini-albero di Satriano di Alberi. Un uomo-albero è appunto quel concatenamento mostruoso di cui è fatto il nuovo. Che il concatenamento sia composto da un ragazzino zingaro e un giovane africano, oppure da un contadino ed un albero non fa grande differenza. Il punto è che il nuovo è un concatenamento. Quello che non si riesce a vedere, schiacciati sotto l’invadente categoria moralistica del “degrado”, è che c’è del nuovo sia nella figura del “romita” – che parla di una commistione sempre ritentata fra umano e vegetale, fra uomo e materia naturale, fra uomo e cosa – sia nel pidgin calabro-rom-francese coloniale-italiano regionale di A Ciambra, ad esempio. Oppure nella “orrenda” architettura spontanea che sorge dovunque in Calabria. Perché il nuovo non è bello né buono, ovviamente, e tantomeno migliore del vecchio.

Il nuovo è soltanto nuovo, nel nuovo accade che la vita continui e proliferi (esattamente come le cellule tumorali, la forma di vita più orrendamente vitale che ci sia). Frammartino mostra sempre nuovi casi di commistione fra umani e piante, fra umani e cose (la sporcizia spazzata nella chiesa de Le quattro volte che l’anziano pastore usa come rimedio contro la sua malattia), fra umani e animali (i concatenamenti uomo-lumache e uomo-capre nello stesso film). L’equivoco è pensare che il concatenamento con un albero sia più nobile di quello con la spazzatura e la ferrovia che passa vicino alla comunità rom di A Ciambra. Il nuovo è questa commistione. Il nuovo è sempre sporco e volgare.

In questo filone che mostra il nuovo dell’Italia visto dal laboratorio della Calabria includiamo anche Anime nere (2014; tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco pubblicato da Rubettino nel 2008), del regista romano Francesco Munzi. La storia, apparentemente, è più tradizionale, la vicenda tragica di una famiglia di delinquenti di Africo, sull’Aspromonte. Si tratta, però, di un racconto che da un lato mostra il grumo arcaico della Calabria, legato in particolare alla vischiosità dei rapporti familiari, dall’altro, però – ed è l’elemento più interessante del film – mostra il carattere ormai del tutto internazionale della malavita calabrese, completamente inserita nella modernità del capitalismo globale. Anche in questo caso la lingua del film è una sorta di pidgin, né italiano né calabrese, né antico né moderno.

Il nuovo parla sempre una lingua che non piace alle grammatiche. L’ultimo film che vogliamo includere nella categoria del “nuovo cinema calabrese” è Corpo celeste (2011) opera prima di Alice Rohrwacher, regista italo-tedesca. Sebbene si tratti di un film che non prende sufficiente distanza dai luoghi comuni sul sud “degradato”, ha dei momenti di verità, quelli in cui Marta, la bambina tornata con la madre a Reggio Calabria dopo essere a lungo vissuta in Svizzera, osserva stupita ma non critica il mondo incomprensibile che la circonda. La Calabria è questa, questo è il nuovo: la poesia o sta nella spazzatura, o non è poesia. Un’ultima notazione: tutti questi registi non sono calabresi. Per vedere il nuovo, per immaginarlo dove meno te lo aspetteresti, devi essere uno straniero. Soprattutto quando è sgradito.

Riferimenti bibliografici
G. Criaco, Anime nere, Rubettino, Soveria Mannelli 2014.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 2010.

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