Un liquido verde, ora putrido e mascherato ora fluo e divorante, permea l’incipit di Nuevo orden, sesto lungometraggio del regista messicano Michel Franco presentato in concorso alla scorsa edizione del Festival di Venezia dove si è aggiudicato il Gran premio della giuria, quasi a non voler interrompere il trend consolidatosi nell’ultimo lustro che sembra far coincidere apertura al mainstream – in dialogo con Hollywood e, soprattutto, con l’Academy – e promozione del cinema latinoamericano.
Quella che dapprima appare un’enigmatica successione di immagini oniriche, emanazioni di una mente inquieta, si trasforma in un incubo a occhi aperti – come sogni nei quali si innesta la percezione della realtà esterna, una volta che la luce comincia a filtrare dagli spiragli delle persiane – trasfigurando un carnaio di corpi lividi in un turbinio di feriti che si riversa in un ospedale di Città del Messico, tracce di vernice verde sui loro indumenti. Uno stacco secco fa seguire al vortice di corpi sofferenti lo sciame cicalecciante dell’alta società convenuta alla festa di matrimonio di Marianne, figlia di un ricco magnate. La villa lussuosa, impeccabilmente arredata con toni neutri animati dal verde intenso della vegetazione e rischiarata dal sapiente impiego di vetrate, appare già una prigione dorata – di un giallore ormai intriso di blu, marcescente – in cui la giostra della vita gira a vuoto, condannata a una ripetizione priva di differenza.
È come se il verde, il colore di transizione, dell’ecologia, della speranza (Pastoureau 2018), di un possibile “nuovo sentire” si stingesse nel grigio(re)verde delle transazioni economiche. Il dio clorofilliano – il cui verde indica «la capacità di assorbire le radiazioni comprese nell’intervallo di lunghezze d’onda del visibile» (voce enciclopedia Treccani) – non è più quello che presiede alla fotosintesi, ma un arido dio prezzolato che troverà la morte riverso sulla propria cassaforte con il cranio crivellato di colpi. L’élite ha secolarizzato ogni cosa, a cominciare dal rituale della marcia nuziale, sostituita bruscamente da paccottiglia dance sempre uguale a se stessa. I formali completi maschili e gli abiti femminili dalle tinte pastello culminanti nel rosso-cinabro (colore per eccellenza della nobiltà) del tailleur di Marianne sono minacciati dal colore del quarto stato, di quei proletari, sempre più al “verde”, che vestono panni borghesi nella speranza di poter ottenere dai padroni, alle dipendenze dei quali hanno trascorso e dedicato tutta la loro esistenza, un prestito necessario a sostenere i costi di un intervento salvavita.
Similmente a quanto accade nella villa dei Park in Parasite (Bong, 2019), il perimetro inespugnabile che dovrebbe infondere un senso di protezione ai suoi abitanti diviene, al contrario, il luogo recondito in cui il germe della congiura può incubare e proliferare. Anche se in maniera piana, deprivata della magniloquenza registico-architettonica di Bong Joon-ho, Franco inscena un’ingenua “rivincita dei domestici” che, dopo decenni trascorsi a rispondere del proprio operato, a prendersi cura della domus e ormai nauseati dall’insensibilità dei signori, fomentano la rivolta di un gruppo armato che sta già incendiando le strade della capitale. Qui l’abito fa il monaco, ed è proprio Marianne a cercare di incarnare una nobiltà che sia anche d’animo, scendendo in strada quando non è ancora chiaro quanto sia critica la situazione, alla ricerca di quelle persone che l’hanno cresciuta e che hanno adesso bisogno di sostegno. La macchina da presa indugia allora dentro l’abitacolo del SUV dai doppi vetri, acquattata entro una bolla tecnologica ben insonorizzata, tradendo quasi un afflato empatico con la protagonista nonché reporter improvvisata, finché il parabrezza non verrà imbrattato da una colata di vernice verde, marcando il vero punto di non ritorno: il momento in cui quello della violenza estetico-narrativa rimarrà l’unico registro cinematografico praticato, in una maniera a cui Michel Franco ha già abituato da anni.
La sensazione di minaccia incombente che aleggia fin dai primi fotogrammi si concretizza così nell’instaurazione subitanea di una dittatura (verde) militare. Il trascolorare incerto delle tinte – gli accostamenti arcani del quadro astrattista sul quale si apre il film che verrà poi vandalizzato senza che però la sua ambiguità affascinante venga estirpata – si tramuta così in un monocromatico Regime del Terrore in cui si fa ricorso alla violenza cieca e sistematica. La débâcle è quindi conseguenza di un’azione politica che non intende problematizzare e che, per la stessa ragione, è incapace di proporre soluzioni. Alla sprovveduta danza sull’orlo dell’abisso del bel mondo si risponde con la strumentalizzazione mistificatoria del potere che istiga il demi-monde – recidendo alla base ogni possibilità d’esistenza di un mondo diverso –, facendo credere al proprio braccio armato di incarnare l’ideale panlatino, di retaggio ispanico e cattolico, ostile ai fondamenti filosofici e morali del liberalismo (Zanatta 2011). Liberalismo degradato, introiettato anche dai “putos ricos” autoctoni che raggiungono l’atelier Louis Vuitton più vicino a bordo della loro Mini Cooper full optional.
Quando la dimensione storico-testimoniale potrebbe porre il film in dialogo con altre opere – affini ma distantissime – quali Garage Olimpo (Bechis, 1999), Post Mortem (Larraín, 2010) o persino La llorona (Bustamante, 2019), Nuevo orden sembra adottare una visione, appannata come quella del lunotto del SUV di Marianne, che non guarda al passato transnazionale dell’America latina e che non può dunque giocare con i generi e riaccostarsi alla realtà attraverso il medium cinematografico. Il film preferisce ergersi a inquietante profezia di un futuro sempre più prossimo da osservare a debita, persino sadica, distanza, come un confortevole e anecoico “naufragio con spettatore”, esemplificato, nel finale, dalla camera car ipnotizzata dalla bandiera messicana svolazzante. La ribellione, i sequestri e le esecuzioni sono le uniche azioni cui i fautori del “nuovo ordine” sanno adempiere: la dimensione progettuale si esaurisce nell’orrore, mentre il male e la brutalità che esplodono fin dai primi minuti seguono una struttura anti-climactica che, tuttavia, si conclude pericolosamente su un’immagine di impiccagione. Verrebbe allora da pensare che la previsione di Pastoureau, il quale considera il verde un colore messianico capace di salvare il mondo, sia forse destinata a rimanere una speranza incapace di attecchire in un prato sintetizzato in CGI.
Riferimenti bibliografici
M. Pastoureau, Verde. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, Milano 2018.
L. Zanatta, Storia dell’America Latina contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2011.
Nuevo orden. Regia: Michel Franco; sceneggiatura: Michel Franco; fotografia: Yves Cape; montaggio: Óscar Figueroa, Michel Franco; musiche: Michel Franco; interpreti: Naian González Norvind, Diego Boneta, Mónica del Carmen, Fernando Cuautle, Darío Yazbek, Roberto Medina, Patricia Bernal, Lisa Owen, Enrique Singer, Eligio Meléndez, Gustavo Sánchez Parra; produzione: Teorema, Les Films d’Ici; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Messico, Francia; durata: 88′.