Sono passati diversi mesi dall’uscita dell’ultimo film di Sorrentino. Se nell’opinione pubblica Parthenope è oramai un ricordo lontano, tra gli antropologi italiani continua a echeggiare. In primis perché come ho potuto apprendere da vari colleghi, e come ho esperito io stesso, è stato per mesi piuttosto comune essere “interrogati” da amici e conoscenti proprio a partire dalla domanda che la giovane Parthenope (Celeste Dalla Porta) – aspirante antropologa – rivolge più volte al navigato prof. Marotta (Silvio Orlando): “Che cos’è l’antropologia?”. Ma soprattutto perché il film rappresenta innegabilmente il prodotto di largo consumo culturale italiano che più di tutti negli ultimi anni ha messo al centro della scena la disciplina antropologica: non solo come trait d’union narrativo ma come vero e proprio “metodo” attraverso cui Parthenope – intesa sia come protagonista del film che come metafora della città di Napoli – si rivela.

Ha difatti le sembianze dell’etnografia la modalità attraverso cui la giovane Parthenope “impara” la città (o dovremmo dire sé stessa). Il sottoproletariato, la malavita organizzata, la società dello spettacolo, il potere ecclesiastico napoletano prendono le sembianze di un “fieldwork” nel quale Parthenope compie i suoi percorsi di ricerca. In ognuno dei contesti che attraversa, difatti, Parthenope sembra guadagnarsi quello che si definisce come “l’accesso al campo” e acquistare legittimità a farne parte per compiere quella che si definisce come “osservazione partecipante” vivendo in maniera più o meno profonda le dinamiche dei mondi in cui entra. Il film di Sorrentino tuttavia è ben lungi dal costituire un ritratto antropologico di Napoli. E l’opera di Sorrentino, benché abbia portato – per qualche mese – l’antropologia fuori dal suo cono d’ombra – non ne ha certo legittimato il ruolo nello spazio pubblico. Anzi, Parthenope si può dire abbia piantato un altro chiodo sulla bara di una disciplina che, soprattutto in Italia, continua a essere ancora irrimediabilmente marginale.

Il film di Sorrentino a ben vedere usa a suo vantaggio la scarsa presenza della disciplina nel dibattito pubblico per costruire il film. Lo fa soprattutto da un punto di vista narrativo: la domanda “che cos’è l’antropologia?” può fare da leitmotiv del film perché si configura come tutto sommato legittima, dato che la maggior parte delle persone in Italia crede che l’antropologia abbia a che fare con dinosauri o stelle (il riferimento è alla rubrica “Non di dinosauri, non di stelle ma…”, curata da Nicoletta Landi e Valentina Rizzo per l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologi). Ma soprattutto la scarsa presenza dell’antropologia nel discorso pubblico permette di alimentarne la percezione di “esoticità”; un elemento fondamentale per la narrazione di Napoli costruita da Sorrentino. Le modalità attraverso cui il regista racconta la città sono difatti ben lontane dalla quotidianità di una Napoli che, nel periodo in cui è ambientato il film, era attraversata da movimenti e sommovimenti impressionanti – come giustamente sottolinea Goffredo Fofi nella sua analisi del film.

Il viaggio iniziatico della giovane antropologa Parthenope nel “ventre di Napoli” non ha nulla del metodo etnografico che, fino a prova contraria, ancora si regge sull’assunto malinowskiano, postulato oltre cento anni fa, del “cogliere il punto di vista del nativo”. Sorrentino per fini narrativi mima e distorce lo sguardo antropologico; di quello che accadeva a Napoli negli anni settanta ben poco gli interessava. La Napoli di Parthenope è invece ben ancorata a uno sguardo che viene da molto più lontano. Si può rintracciare ad esempio nella tradizione del Gran Tour dove i Nord Europei che arrivavano al Sud restituivano lo stesso misto di fascino e orrore che è possibile ritrovare nei personaggi che incontra la giovane Parthenope. Il cardinale, il camorrista, la showgirl cosa sono se non fenomeni “folkloristici”, tipizzazioni di quella “umanità degradata” attraverso cui da secoli si costruisce la narrazione di Napoli?

Come ricorda Benedetto Croce (2006), è sin dal Medioevo che Napoli viene rappresentata quale “Paradiso abitato da diavoli”: un luogo dove agli ambienti paradisiaci della città si contrappone l’abominio dei suoi abitanti. Nelson Moe nel suo saggio The view from the Vesuvius (2004), tradotto per l’Ancora del Mediterraneo proprio con il titolo “Un paradiso abitato da diavoli”, mostra con precisione chirurgica la valenza di queste rappresentazioni del Sud – veicolate tanto attraverso discorsi politici quanto da prodotti artistici e culturali – all’interno del panorama nazionale ed europeo. Tanto la narrazione degradante, quanto quella pittoresca del Mezzogiorno sono stati difatti funzionali alla creazione di un’identità culturale europea, in cui il Sud Italia veniva visto come una frontiera tra la modernità e il suo altro. Citando le parole di Moe:

Più in basso cade il Sud nella concezione del Nord, più in alto sale il Nord nella sua autorappresentazione. La distanza e la diversità del Sud dal Nord aiutano quest’ultimo a rafforzare la propria identità di regione moralmente, culturalmente e tecnicamente superiore (2004, p. 168-169).

Le immagini al centro del film di Sorrentino sembrano provenire proprio da questo repertorio di lungo corso. Al centro c’è la bellezza di Parthenope, la donna/città/sirena che, a partire da Ulisse, ha incantato per millenni i viaggiatori che arrivavano dalla “civiltà”. Una bellezza il cui trionfo viene celebrato all’inizio del film, ma che è bruscamente interrotto quando la protagonista, con il suicidio del fratello, viene “gettata” nel mondo. È in quel momento che compaiono le umanità degradate, i diavoli con i quali Parthenope comincia la sua “catabasi”. Nel film di Sorrentino la città di Napoli non si vede mai perché resta sempre al centro dello schermo, incarnata nella protagonista che rimane “paradisiaca”, a fronte dei “diavoli” di cui si riempie. La metafora del viaggio etnografico nel film di Sorrentino, insomma, altro non è che riproposizione contemporanea di uno sguardo orientalista che ancora continua a essere funzionale per rappresentare – e sovente per auto rappresentare – il concetto stesso di Sud.

La scena madre del film è in questo senso rivelativa. Alla fine delle sue peripezie alla scoperta della città, e prima del suo trasferimento al Nord Italia, a Parthenope viene finalmente rivelato cosa sia l’antropologia. Il prof. Marotta sostiene che l’antropologia sia “vedere”. Dopodiché le presenta suo figlio, un essere gigante e macrocefalo dall’atteggiamento infantile che, in mutande, guarda TV trash degli anni settanta. L’anziano antropologo nel fare le presentazioni sostiene che suo figlio sia fatto di “acqua e sale”; e la giovane aspirante antropologa risponde “come me”. In questa surreale scena emerge la funzione strumentale dell’antropologia come mezzo attraverso cui Sorrentino materializza la sua visione del “paradiso abitato da diavoli”. Le due Napoli – strutturalmente inconciliabili – si pongono una di fronte all’altra e si riconoscono prima di separarsi. Una separazione inevitabile che viene interrotta a maggio 2023 quando Parthenope, dopo 40 anni, torna a Napoli: con le celebrazioni per lo scudetto, “diavoli” e “paradiso” – seppur per un momento fugace – possono di nuovo fondersi.

Appare chiaro che l’antropologia in Parthenope non sia quindi ciò che pretende di essere, ossia un mezzo attraverso cui costruire comprensione e relazione con l’altro. È anzi il suo esatto opposto: una sorta di specchio che riflette stereotipi, pregiudizi, immagini consolidate e di lunga tradizione. Una modalità per fissare una narrazione oggi quanto mai presente nelle rappresentazioni e nelle autorappresentazioni della Napoli turistica fatta – proprio come ai tempi del sacerdote tardo medievale Piovano Arlotto – di “uomini di poco ingegno, maligni, cattivi e pieni di tradimento”. Se Sorrentino ha potuto utilizzare l’antropologia per costruire il suo “paradiso abitato da diavoli”, non è colpa degli antropologi italiani. È però certamente una responsabilità fare in modo che narrazioni del genere non trovino cittadinanza nello spazio pubblico. Appare quanto mai urgente il lavoro che da qualche anno vari settori della comunità accademica e professionale (tra tutti SIAA e ANPIA, rispettivamente la Società Italiana di Antropologia Applicata e l’Associazione Nazionale Professionale Italiana di Antropologia) hanno intrapreso nel tentare di portare l’antropologia fuori dall’autoreferenzialità. Un lavoro che si spera porti i suoi frutti nel tempo e che possa convincere, tra gli altri, anche Paolo Sorrentino sul fatto che l’antropologia, come ci dice Tim Ingold, sia null’altro che «prendere gli altri sul serio» (2020, p. 20).

Riferimenti bibliografici
B. Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Adelphi, Milano 2006.
T. Ingold, Antropologia. Ripensare il mondo, Meltemi, Sesto San Giovanni 2020.
N. Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004.

Parthenope. Regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; musiche: Lele Marchitelli; interpreti: Stefania Sandrelli, Celeste Dalla Porta, Luisa Ranieri, Silvio Orlando, Gary Oldman, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Alfonso Santagata; produzione: The Apartment, Fremantle, Saint Laurent productions, Numero 10, Pathé Pictures; distribuzione: Piper Film; origine: Italia, Francia; durata: 136′; anno: 2024.

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