Torna in Parthenope qualcosa che caratterizza le opere migliori di Sorrentino, cioè lo sconfinamento del film nel cinema, dove, come nella “vita che è enorme, ci si perde dappertutto” (come dice la citazione di Celine ad apertura film). Non si tratta di raccontare la storia di una vita, quella di Parthenope, dal 1950, anno della nascita, al 2023, anno in cui finisce il film; e non si tratta neanche di raccontare attraverso Parthenope Napoli; ma in forma più ambiziosa si tratta di raccontare attraverso Napoli il senso della vita in genere.

E il senso della vita per un regista come Sorrentino non può che contenere tutto, giovinezza e vecchiaia, dolore ed amore, solitudine e famiglia, progetti, e soprattutto incontri. Detto altrimenti, il senso della vita non sta in questa o quella esperienza determinata, ma nella vita in genere che tutte le attraversa e che può essere restituita solo da un personaggio che si fa mito, come Parthenope. Partorita nelle acque del mare di Napoli, Parthenope attraversa amori giovanili, sospesa tra fidanzato e fratello a lei attaccato in forma quasi incestuosa (un legame alla The Dreamers di Bertolucci). Quest’ultimo per gelosia si “lascerà cadere” giù dalla scogliera di Capri, quando vede la sorella baciare il ragazzo: l’evento luttuoso segnerà per sempre la vita di Parthenope.

Crescendo Parthenope attrarrà uomini adulti, dal riccastro in elicottero al mezzo boss incontrato in nave, a un John Cheever dandy (Gary Oldman), il quale le dice che con lei giacerebbe se gli piacessero le donne. Ma il suo intercettare il desiderio maschile le riconsegna una immagine sfuggente e imprendibile. Seduttrice involontaria, Parthenope non sta mai lì dove dovrebbe stare ed è destinata alla solitudine.

Il suo desiderio, quando si fa parte attiva, la rende più presente, e riguarda da un lato la possibilità di diventare attrice: lì incontra Flora Malva (Isabella Ferrari), un’attrice che vive con una maschera perché devastata dalla chirurgia estetica, e Greta Cool (Luisa Ranieri), attrice famosa che tornando a Napoli esprime tutto il suo disprezzo verso una città che non l’ha mai capita; ma riguarda dall’altro soprattutto la sua passione per l’antropologia, che le farà intraprendere la carriera accademica, guidata dal suo amato professore Devoto Marotta (Silvio Orlando). Carriera che la accompagnerà fino alla pensione, dove Parthenope, oramai matura, sarà interpretata da Stefania Sandrelli.

Questa sarebbe diciamo in sintesi la storia di una vita, dalla giovinezza alla vecchiaia, e dei suoi incontri, che mai si sono convertiti in un progetto. Perché un progetto limiterebbe la disponibilità del soggetto ad incontrare la vita; così come la limiterebbe la maternità, a cui Parthenope rinuncia abortendo. E parallelamente a questo privato c’è la storia di Napoli e dei suoi frammenti, che intrecciano la vita di Parthenope: Achille Lauro, il colera, il Sessantotto, lo scudetto del Napoli. Ma in questo intreccio ci troveremmo ancora in una zona tutto sommato prevedibile, del rimando tra privato e pubblico, individuo e società, passato e futuro.

Il gesto di Sorrentino è più radicale e più felice. Il suo personaggio-intercessore questa volta non è l’anziano Jep Gambardella de La grande bellezza, smarrito nelle terrazze romane, ma per la prima volta un’anima femminile e giovane, in cui la bellezza non comune di Parthenope (Celeste Della Porta) è associata alla sua magrezza, che ne accentua il suo carattere etereo. Parthenope attraversa la vita declinando tutto lo spettro possibile che accompagna il sentimento di una presenza al mondo: dall’elusione alla malinconia alla gioia, e allo stupore che tutte sembra raccoglierle. Ma su tutte sembra vincere la curiosità, cioè il desiderio di incontrare realtà singolari e nuove.

E tra le “frasi ad effetto” che attraversano il film, e che colpiscono perché ne individuiamo allo stesso tempo la verità ma anche la possibile non-verità, ce ne è una che riguarda l’essere di Parthenope allo stesso tempo “vera” e “falsa”. Parthenope è vera proprio perché è falsa. Diventa verosimile solo nella maturità, quando viene interpretata da Stefania Sandrelli.

La verità del falso è fondamentalmente quella del mito. Un racconto che riguarda il nostro essere al mondo, che non ha necessità di corrispondere ad alcuna verosimiglianza. Soltanto che il tratto mitologico qui si svincola completamente (come in molto cinema di Sorrentino) dal mythos, cioè dall’intreccio. Qui il personaggio, emancipandosi dall’intreccio, attraversa spazio e tempo e si imbatte in una infinita varietà di situazioni, risolte in altrettante magistrali scene (anche nell’interpretazione, come quella con Beppe Lanzetta nelle parti di un “demonico” cardinale). Attraverso Parthenope, personaggi e situazioni di una Napoli senza tempo vengono a visibilità, costituendosi anche come momenti di una formazione (comunque incompiuta), di un passaggio dalla gioventù alla maturità.

Il tratto mitologico del personaggio si salda con i tratti dell’immaginario di oggi e di ieri (la sottolineatura delle sigarette fumate). La sua struttura archetipica individua un femminile emancipato, libero anche dalle gabbie ideologiche delle questioni di genere. La dicotomia polarizzante natura-cultura, mera costruzione ideologica, toglie centralità alla zona intermedia (l’unica che conta), quella che le rende indiscernibili, e in cui strutture mitologiche e forme archetipiche si saldano a dimensioni immaginarie, determinando il senso stesso della nostra esperienza. E dove un personaggio si rende indiscernibile dal mondo stesso (Parthenope da Napoli). In questo c’è un lato junghiano nel cinema di Sorrentino, che lo avvicina, anche da questo punto di vista, a Fellini. Poter cambiare e aprire il nuovo significa in primo luogo riconoscere tali forme archetipiche, non negarle ed esorcizzarle con astrazioni ideologiche.

Ciò che resta di questo film di Sorrentino è una cosa di un certo rilievo, quella che individua la totalizzazione dell’esperienza del tempo (del futuro e delle sue aspettative, del passato e delle sue nostalgie) e dello spazio (una città mondo come Napoli) in un sentimento e nelle sue manifestazioni emotive, incarnate in un personaggio.

Il sentimento è la traccia del fondamento mitico ed archetipico che lo genera, l’emozione si connette invece alla superficie immaginaria dell’oggi. La forza del film, e in genere del cinema più recente di Sorrentino, è quella di connettere la superficie delle emozioni alla profondità dei sentimenti, saltando completamente l’idea che il senso si possa manifestare in una logica, di cui l’intreccio narrativo sarebbe il primo contrassegno.

In questo, il personaggio di Parthenope è l’intercessore più avanzato del cinema di Sorrentino, la sua vera Anima, femminile più che maschile, catalizzatrice di sentimenti ed emozioni, che scalza le precedenti e che diventa la via d’accesso migliore a quello stupore malinconico (cioè segnato dal sentimento di perdita), che anima lo sguardo più felice del regista napoletano.

Parthenope. Regia: Paolo Sorrentino; sceneggiatura: Paolo Sorrentino; fotografia: Daria D’Antonio; montaggio: Cristiano Travaglioli; musiche: Lele Marchitelli; interpreti: Stefania Sandrelli, Celeste Dalla Porta, Luisa Ranieri, Silvio Orlando, Gary Oldman, Isabella Ferrari, Peppe Lanzetta, Alfonso Santagata; produzione: The Apartment, Fremantle, Saint Laurent productions, Numero 10, Pathé Pictures; distribuzione: Piper Film; origine: Italia, Francia; durata: 136′; anno: 2024.

Share