Basta ricordare Us, ossia il titolo originale del secondo film di Jordan Peele, per pensare alla perdita della a di Usa, e quindi al ritratto problematico di un’America in cui Noi (pronome personale) risulta affetto da una scissione costitutiva, forse irrimediabilmente insanabile, almeno nelle attuali condizioni economico-sociali.

Nel 1986, la piccola Adelaide Wilson, figlia di afroamericani, rimane colpita dalla manifestazione chiamata “Hands Across America”, una catena di centinaia di migliaia di mani unite nella solidarietà concreta (in nome del Noi) contro la miseria e le discriminazioni razziali; un po’ più tardi, il suo Doppio in tuta rossa, che le appare nella casa degli specchi in un lunapark, le rivela una verità amara: disegna col gesso, su una lavagna fantastica, una fila interminabile di omini che si tengono per mano, ma la fila, a un certo punto, ha uno scarto, sembra che il disegno degli ultimi omini in fondo a destra sia percorso da una diversità che interrompe il contatto o lo rende problematico.

È come se alla visione delle mani unite nella solidarietà si sovrapponesse inconsciamente quella di un altro video di qualche anno prima: parlo di Thriller, il video di Michael Jackson, il nero che avrebbe voluto farsi bianco, in cui la danza è l’unico rimedio adatto a scongiurare le metamorfosi più mostruose. In effetti, Adelaide vorrebbe intraprendere la carriera di ballerina classica, è molto brava: ma il destino le riserva il matrimonio, un marito, due figli. Con loro la vediamo oggi, tutti diretti in macchina verso la casa di Santa Cruz, in California, per una vacanza al sole nella vecchia casa di Adelaide, vicina al lunapark in cui lei ha avuto, da piccola, le sue visioni.

Un’altra, tra queste, è restata impressa nella mente di Adelaide adulta. Il Doppio le aveva mostrato dei conigli bianchi, rinchiusi in gabbie sovrapposte. Perché questi conigli? Lo stesso Peele ha parlato delle loro lunghe orecchie, che dovrebbero evocare la suggestione del Doppio, così com’è evocata da quel paio di forbici che appaiono anche nella locandina del film; e la suggestione, ovviamente, va ricondotta al Bianconiglio di Alice in Wonderland, moltiplicatosi in maniera inquietante; ma si potrebbero anche ricordare (perché no?) certe suggestioni di David Lynch, specie quando, nel finale, i conigli scorazzano liberi negli ambienti lussuosi e sinistri in cui hanno luogo gli scontri feroci degli zombi.

Non è un caso che sia venuto fuori il nome di Lynch, anche se potrebbero farsene altri, come quelli di Romero o Don Siegel; ma qui sta il punto. Noi appartiene a un genere (il thriller-horror) e al tempo stesso se ne distacca. L’interesse nel chiarire i dettagli e i risvolti della storia è minimo, è continua l’accumulazione di climax o di scene madri, la cui dinamica è lasciata volutamente oscura. Benché si svolga in California, questo è un film cupo e notturno, certo, ma è anche un film in cui spesso è difficile capire cosa accade, distinguere i passaggi narrativi.

È forte la tentazione, bisogna dirlo, di considerarlo addirittura un film fallito, specie se lo si paragona alla sceneggiatura perfetta (premiata con l’Oscar) del precedente film di Peele, Scappa – Get Out, meccanismo a orologeria in cui si riscontrano pure commistioni di generi diversi, ma tutto, alla fine, torna a posto sul piano narrativo. L’Oscar, appunto. Le avventure e le sventure di Chris, giovane nero sperduto nella terra degli stregoni bianchi, si avvalgono magistralmente dei meccanismi horror, non senza qualche tocco comico o ironico, fino a uno scioglimento di perfetta simmetria narrativa.

Noi, invece, sembra quasi un film sperimentale, un seguito in apparenza incoerente di incubi e sogni, visioni suggerite da uno stato psichedelico (c’è una canzone che vi allude), oltre che dal cinema di genere e da certe serie televisive (Peele, del resto, viene dalla televisione). Noi è dunque un film sull’impossibilità del Noi, dove l’adozione di una prospettiva horror procede per accumulo, senza nessuna preoccupazione per l’usuale progressione drammatica. L’horror serve solo a mettere in crisi il Noi, moltiplicando i Doppi, quindi la scissione dei soggetti e la loro moltiplicazione mostruosa.

La scissione è propiziata dal ritorno, come in parte avveniva anche in Get Out. Adelaide Wilson adulta (Lupita Nyong’o) torna di malavoglia nella casa delle sue giovanili visioni, e le visioni puntualmente tornano. Noi è l’emblema di un Noi pericoloso, del nostro lato oscuro, se si vuole. Noi attacchiamo Noi stessi, pronti a cedere alla pulsione distruttiva che ci portiamo dentro senza saperlo. Adelaide ha strane premonizioni: è preoccupata soprattutto per Jason, il figlio minore, che spesso si nasconde negli armadi e porta sempre una maschera a tracolla, che qualche volta indossa. È lui il primo a imbattersi, mentre va girovagando per la spiaggia, in uno strano manichino di stoppa, che sembra sanguinare.

Una notte, nel giardino della casa dei Wilson, appaiono quattro figure immobili, silenziose. Gable, il marito di Adelaide, che è una figura quasi comica, dapprima li sfida, armato di una mazza da baseball, poi, di fronte alla loro reazione, batte in ritirata. È l’inizio di un assedio tipo notte dei morti viventi, durante il quale Adelaide assume l’aspetto belluino e feroce del suo Doppio, sia pure al fine apparente di proteggere la sua stessa famiglia. Tra le orecchie puntute dei conigli in libertà, si svolge la lotta feroce, per la vita e per la morte, di Adelaide in versione Furia contro Kitty Tyler, la sua ex-amica bianca, ricca e privilegiata, ridotta allo stato di zombie. È una lotta feroce, senza esclusione di colpi, tra due furie scatenate, ma non manca il contrappunto della danza (sul tema irriconoscibile dello Schiaccianoci), la passione perduta dal cui ricordo Adelaide sembra attingere forza.

Alla fine, forse, i neri possono fuggire, sembrano salvi, ma non è chiaro verso quale direzione possano dirigersi. Soprattutto, si sono salvati loro, o non si tratta magari dei loro Doppi? A questa domanda, giustamente, il film di Peele non ritiene di dover dare una risposta.

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