Ogni libro importante è attraversato da una intuizione, che traduce un sentimento, cha matura dalla posizione che il narratore assume rispetto a se stesso, alla propria esperienza, e al mondo che lo circonda. A maggior ragione quando questo libro riguarda il Paese in cui si vive. Tale è un libro significativo dello psicoanalista Luigi Zoja, Narrare l’Italia, dedicato a una archeologia delle narrative che hanno costituito il nostro Paese. L’inizio di tale narrazione è di molto antecedente sia all’Unità d’Italia, che al formarsi della lingua italiana dal volgare toscano di Dante, e perfino alla fondazione di Roma. L’intuizione può essere restituita in questo modo: l’Italia è stata grande quando non era ancora Italia.
L’origine dell’Italia è nella geografia, nella penisola, nello “stivale”, in quell’elemento geografico in cui storia, politica e stato vengono a sospendersi. L’Italia si è sempre ritrovata al di fuori di un orizzonte pubblico e statuale, in una sorta di condizione antropologica legata al territorio, qualcosa che caratterizza il Belpaese, e la sua immagine, creata soprattutto dallo sguardo esterno, straniero. La sospensione della dimensione storica era anche al centro di un libro di qualche anno fa di Roberto Esposito, Pensiero vivente, che individuava nella vita quella soglia liminare che permetteva la ripartenza di volta in volta nuova e differente delle forme sociali e storiche.
La prospettiva geografica riporta immediatamente ad una geografia antropica, in cui il territorio diventa il luogo di disseminazione di molteplici centri urbani (l’Italia dei comuni), capaci di generare forti spinte in direzione dell’autonomia e della differenziazione, che approderanno all’epoca d’oro del Rinascimento, in cui non soltanto il grande sviluppo delle arti, ma anche la floridezza economica e lo spirito di impresa trasformano l’Italia nel centro del mondo: «Il secolo XVI era il vertice: non più un percorso, ma una luce universale che ripartiva tra tanti popoli lo splendore raggiunto» (2024, p. 121).
Da lì comincia per Zoja la decadenza, che trova il suo culmine nell’arco temporale che va dal Risorgimento al Fascismo, dal Nazionalismo romantico a quello totalitario. In questo arco di tempo il racconto della “grande Italia” spinge il Paese verso la propaganda, verso una retorica che crea una frattura tra ciò che si è e ciò che si dice di essere, verso una narrazione che restituisce un’immagine falsa di ciò che Italia ed italiani sono.
La distanza dal Rinascimento a questo punto si fa radicale: «[Il] Rinascimento, che comunque non si autodenominava tale, e che era intento a creare, non a propagandare una creazione […] L’idea del Rinascimento implica che non si nasca, o ri-nasca, per intenzione, al contrario, nella retorica romantica si sorge e si risorge perché lo si vuole fortemente. Il Risorgimento si distinguerebbe dal Rinascimento per una volontà metafisica» (ivi, p. 174).
E in questa retorica propagandistica è incluso un culto della morte, presente anche nell’inno nazionale: «Il nazionalismo, che Mameli rappresenta, è fortemente anti-italiano nel suo inconscio: ammira il grandioso e la potenza militare, disprezza i tratti contenuti, semplici, eleganti, che attraverso le arti hanno portato l’Italia al vertice del mondo. Siam pronti alla morte. Al culmine dell’inno compare la “falciatrice”. L’uomo è un percorso dalla nascita alla morte» (ivi, p. 185).
All’interno della prospettiva di Zoja, quello che risulta interessante è da un lato il ribaltamento del valore abitualmente attribuito al Risorgimento, che non viene pensato come un’occasione mancata, ma come attuazione sistematica di un credo in cui azioni e parole d’ordine sono tutte orientate a costruire un’Italia che non c’è; ma dall’altro, e soprattutto, la valorizzazione della dimensione estetica, e dell’afflato romantico-melodrammatico come elementi decisivi per la costruzione della cornice emotiva del «culto poetico della guerra e della morte» ottocentesco (ivi, p. 311). Dunque, una «necrofilia risorgimentale» (ivi, p. 217), che trova un corrispettivo estetico nel genere melodramma come genere della nazione.
Giacomo Leopardi ha chiamato, in un’opera ancora oggi insuperata per il modo in cui ha saputo leggere il carattere degli italiani, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), «scetticismo» il sentimento tutto italiano che ha accompagnato la mancanza di illusioni per effetto dell’assenza di “stretta società”, cioè di borghesia illuminata. Tale scetticismo è stato ed è causa del perenne caos socio-politico italiano, ma allo stesso tempo origine della eccellenza filosofica ed artistica che un popolo disilluso e vicino alla vita riesce a riconsegnarci.
Per Zoja tale profondo scetticismo ha alimentato una disistima profonda del popolo italiano nei confronti di sé stesso, nascosta da retorica di grandezza. E piuttosto che vicinanza acuta alla vita, tale sentimento ha dato vita ad una precipitazione passionale-sentimentale che si è incarnata nella forma estetica del melodramma. Il melodramma è stato ed è il genere della incandescenza passionale e simbiotica, che trasferisce sul piano formale la saturazione storico-politica operata dal nazionalismo risorgimentale. Per il cinema, Senso di Visconti è stato il grande esempio di tale melodramma della nazione, con la ripresa del Trovatore verdiano.
Allora, se il Risorgimento è il nome proprio di un declino, lo è perché maschera sistematicamente l’inettitudine di un popolo con il suo opposto, tenendo insieme «complessi di superiorità e di inferiorità» (ivi, p. 320), ribaltando l’inetto nel gradasso, l’irresponsabile nel miles gloriosus. «Inflazione psichica» la chiama Zoja, citando Jung. È stata la commedia all’italiana, la nostra vera «epopea nazionale», come l’ha definita Maurizio Grande, ad avere smascherato tutto questo. Il sorpasso è da questo punto di vista il film manifesto, dove le maschere di Gassman e Trintignant, dell’alazon e dell’eiron, si tengono insieme, fino a quando la seconda non soccombe, pagando non solo il prezzo della vicinanza alla prima, ma il ritiro timido e passivo dalla scena del mondo che la caratterizza fin dall’inizio.
La commedia all’italiana ha smascherato la retorica della nazione e della sua grandezza (amplificata dal melodramma), e i dispositivi illusori che l’hanno alimentata, anche e soprattutto nei contesti bellici (La grande guerra di Monicelli). Ma questo smascheramento ha lasciato il “nulla”, un ghigno nero che risuona ancora nel “vuoto”.
La libertà policentrica del Cinquecento è stata per Zoja tutt’altra cosa. L’Italia era veramente l’Italia, cioè stile di vita, pur non essendo nazione. E lo è stato perché insieme al Rinascimento c’è stata la Commedia dell’Arte (ivi, p. 131). Se il primo è caratterizzato dai nomi propri dei grandi artisti, la seconda invece «non è fatta di nomi. È uno spettacolo e lascia piuttosto il segno di uno “stile”» (ibidem). Insomma, nel Cinquecento, un fare senza retorica né parola autodescrittiva, ha dato vita a due fenomeni unici ed insuperati: la grande arte rinascimentale, e l’arte comica di maschere carnevalesche che si sono fatte puro gesto senza lasciare traccia scritta.
Il carattere popolare dell’arte italiana ha avuto dunque due grandi tradizioni estetiche, che hanno corrisposto a due fasi storico-politiche, o meglio ancora a due situazioni antropologiche distinte: una affermativa, che si è imposta con la forza di un gesto espressivo vitale e privo di elementi “neri” (la tradizione cinquecentesca della Commedia dell’arte, giunta fino a Totò); e un’altra scettica, che si è realizzata nel melodramma e nei suoi sviluppi, dall’Ottocento al nostro cinema degli anni cinquanta del secolo scorso.
A questo va aggiunta una terza linea, novecentesca. Una linea “critica”, quella delle maschere “nere” della commedia all’italiana, della commedia di costume, capace di smascherare tutta la falsa e nobile retorica della nazione. Cioè capace di restituire in caricatura tutto il sentimentalismo melodrammatico, sia privato che pubblico (Straziami ma di baci saziami di Dino Risi).
Se è vero dunque che gli italiani sono un popolo “complessato”, in cui scetticismo e mancanza di fiducia si ribaltano in pericolose e mortifere “manie di grandezza”, è anche vero che hanno spesso saputo fare di questo limite una forza. E trovare nella strutturale debolezza e nella mancanza di autonomia la condizione per inventare uno stile di vita, “umile” (francescano), misurato, elegante, segnato da aperture e contaminazioni tra culture e tradizioni.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
R. Esposito, Pensiero vivente, Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010.
M. Grande, La commedia all’italiana, Bulzoni, Roma 2003.
G. Leopardi, Discorso sullo stato presente del costume degl’Italiani, Feltrinelli, Milano 2015.
Luigi Zoja, Narrare l’Italia. Dal vertice del mondo al Novecento, Bollati Boringhieri, Torino 2024.