di GIANLUCA MIGLINO
Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città di Ulrich van Loyen.
«Dov’era il mio posto?». Nel cuore di una scena parossistica, a conclusione del pellegrinaggio della Madonna dell’Arco, in un Santuario colmo di fedeli che si dimenano in terra, «agitandosi come nuotatori», l’etnologo Ulrich van Loyen si pone la domanda forse cruciale del suo percorso di ricerca. Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città, uscito qualche mese fa per Meltemi, è il risultato, sorprendente e per certi versi spiazzante, di un itinerario di ricerca (e non solo) che l’etnologo tedesco intraprende nel maggio 2013, installandosi nel rione Sanità di Napoli e vivendo per più di un anno tra molteplici livelli (e dislivelli) di cultura della città. Il testo è un intreccio tra reportage, studio etnografico-antropologico, Bildungsroman, saggio storico-politico, non solo su Napoli e il passato-presente delle sue devozioni popolari, ma, più in generale, su come sia possibile oggi creare le condizioni per vivere in una città post-moderna. Un sovrapporsi a volte magmatico di stralci dai diari di campo, confessioni e narrazioni di tanti napoletani (persino i loro sogni, oltre ogni suggestione banalmente psicanalitica, diventano testi da interpretare), citazioni di letteratura antropologica e tanto altro.
Questo sorprendente libro vanta già una discreta ricezione in Italia, sia come studio etnologico, sia come ennesimo contributo al mito di Napoli e alle sue infinite narrazioni. La sua cifra specifica, il suo carattere persino esemplare, non è però facile da cogliere ad una prima lettura. Attraverso una ricostruzione genealogica delle intermittenze storiche del culto delle anime del Purgatorio e una “osservazione partecipante” della vita devozionale di fedeli, veggenti, possedute, curatrici, ossia di tutti quei mediatori del sacro che parlano ai morti e li fanno parlare, Van Loyen costruisce un discorso pulsante sull’inestricabile intreccio tra cultura e religiosità popolari, religione ufficiale, politica locale. Al centro di questa devozione popolare sta, come è forse noto ai più, l’«adozione di un’anima» da parte di un fedele, adozione che quasi sempre prende le mosse da un sogno, in cui l’apparizione di un defunto sconosciuto si associa ad un resto (di solito, un teschio) anonimo. Sono i resti degli ultimi, di coloro che sono morti senza lasciare testimonianza, che sono rimasti in un limbo. Ma per Van Loyen si tratta soprattutto di un modo esemplare per trasformare una negatività in positività, una mancanza in risorsa sociale ed individuale.
I resti anonimi, che si trovano cioè ancora su una soglia irrisolta, hanno il potere di attirare a sé altre forme di vita liminali della Napoli contemporanea. I teschi oggetto di culto si propongono allora come il fulcro di nuove relazioni, di scambi ineguali, in cui il riconoscimento di un antenato comune apre prospettive di inedite alleanze. Essi contribuiscono a creare sodalizi sulla base di una nuova dinamica sociale e culturale, in cui, per fare un esempio, la famiglia nucleare, dissoltasi nel vuoto creato dall’assenza dello Stato e dalla scomparsa delle tradizionali istanze di mediazione, può ricrearsi come famiglia non naturale. La “salvezza” che i devoti si ripromettono dall’incontro con i teschi ipotizza così forme di esistenza che vanno al di là dell’ambito genealogico e apre alla dimensione della pura vita, in cui l’ “amicizia” può prendere il posto della “parentela”, l’uguaglianza nello scambio dei doni quello delle relazioni gerarchiche, una dimensione che, come ricorda l’etnologo, costituisce il vero fondamento di rapporti di parentela che a Napoli sono sempre rimasti precari. Rivolgersi ai morti significa allora che le vere leggi dell’azione (il dono, il contraccambio, la benevolenza, l’amicizia) sono potenti appunto perché portano con sé la loro origine (minacciosa) nel regno dei morti.
Ma la questione che sembra interessare Van Loyen è anche un’altra: delineare, su queste basi tipicamente storico-antropologiche, i modi in cui avviene questa «integrazione del negativo» nell’immagine che la città ha costruito e costruisce di sé, vale a dire, i modi in cui a Napoli l’integrazione della negatività genera cultura, diventando un atto di creazione. Il culto delle anime del purgatorio si rivela infatti sempre di più nel corso del libro come pratica di una vita condotta sui limiti, come ininterrotta traduzione simbolica di una condizione liminale che caratterizza, secondo lo stesso etnologo, la storia culturale di Napoli più che di altre città. «Quando i desideri sono forti senza avverarsi, cominciano a degenerare», scrive ad un certo punto Van Loyen. Le grandi promesse (della Storia, della modernità, della ricchezza) non si sono avverate, e diventa allora necessario avviare un processo di rielaborazione di questi desideri inesauditi, innescando dei processi per comprendere i quali è necessario, secondo Van Loyen, porsi all’intersezione tra concreto e universale, studiare cioè le transizioni liminali, quel qualcosa che può distinguere i santi dai mendicanti, le Madonne dalle veggenti, i bambini dai morti, che può rivelare altro sulle loro essenze e la loro comunità.
Per questo il percorso del libro è articolato in tre parti, che costituiscono altrettanti passaggi di quella vera e propria nekyia che è l’immersione dell’etnologo nella vita della Unterwelt napoletana. In uno scenario popolato da femminielli e guaritrici, da teschi anonimi e mediatori che vedono la loro autorità dissolversi di fronte allo smaterializzarsi dei poteri, partendo dal rione Sanità, la ricerca si muove verso la dimensione sotterranea degli ipogei (quelli della chiesa di San Pietro ad Aram e della cripta dei Santi Cosma e Damiano di Secondigliano). Van Loyen sa che per un etnologo che voglia interessarsi di queste pratiche esiste un varco difficile da percorrere tra una considerazione astorica e apologetica di queste pratiche religiose propria di molta letteratura scientifica italiana, e la svalutazione delle devozioni dell’Italia meridionale, propria invece di tanta ricerca internazionale, che le ha spesso liquidate come residui di una religiosità pagana priva di interesse etnologico. Da un lato, il tentativo di legittimare le pretese di un passato autentico rispetto ad un presente alienato, da cui sono nate sia tutte quelle narrazioni incentrate sull’opposizione tra forze egemoniche e sopravvivenze antagonistiche e sulla promessa di un riscatto della classi subalterne contro gli oppressori (l’eredità dell’opera di Ernesto de Martino, discussa in pagine molte dense a conclusione del libro), sia i processi di folclorizzazione di questa religiosità, preliminari al suo sfruttamento turistico, oggi evidente a tutti. Dall’altro, la svalutazione, frutto di un incrocio tra cultura protestante ed esotismo, della cifra magica ed arcaica implicita in questa religiosità.
Per van Loyen, invece, il culto dei morti a Napoli non è né una sopravvivenza arcaica, né un «patrimonio culturale» da amministrare e valorizzare. Se Napoli non è mai riuscita a diventare veramente moderna, non è neppure rimasta semplicemente arcaica. Lo dimostra l’itinerario “sul campo” percorso da Van Loyen, che, dopo l’attraversamento quasi iniziatico dello spazio ipogeo, ritorna alla luce e supera anche il confine della città vera e propria. Il culto della Madonna dell’Arco, molto radicato nel rione Sanità, culmina nel pellegrinaggio di cui si diceva all’inizio. Qui l’etnologo si trova dentro qualcosa che gli sembra persino al di fuori della cultura borghese, tanto da evocare quasi una sospensione della “trasformazione antropologica” di pasoliniana memoria, e comprende come, attraverso i culti delle anime, l’opera delle veggenti e la loro mediazione, la purificazione religiosa, non sia affatto semplificata, ma vada invece nella direzione di un principio di delega indefinita, conduca alla moltiplicazione dei mediatori, tanto da determinare, come scrive, «un incremento dell’essere, una sovradeterminazione che al tempo stesso crea la possibilità di nuovi disordini […] e così mantiene vivo il ribollire di una città che porta avanti la propria “impossibilità”, compreso l’impossibile».
L’analisi del culto napoletano dei morti richiama così la “possibilità di una città”, e ciò avviene secondo Van Loyen perché Napoli, nella sua cifra spaziale e geologica, nelle sue pratiche rituali e culturali, presenta tutti gli elementi costitutivi di una vita urbana, cioè, come sottolinea Van Loyen, della città per eccellenza, ma li lascia in una condizione sempre precaria in cui non c’è niente di assolutamente nuovo, anche se nessuna tradizione si perde mai completamente. Come una di quelle «province dell’uomo» (Canetti) che hanno particolare bisogno di trasformare in risorse la crisi perenne attraverso una produzione simbolica incessante, Napoli attesta la possibilità di una città pur nel suo provincialismo, in tutto ciò che, nella capitale decaduta ormai disertata dalla Storia, rimanda a strategie di sopravvivenza attraverso l’autoreferenzialità. Über die Möglichkeit einer Stadt è infatti il sottotitolo originale del libro, che non solo sarebbe stato importante conservare in traduzione per il suo carattere di tesi, ma che è doppiamente fuorviante tradurre con Viaggio nei riti di fondazione di una città, resa che insiste da un lato sul concetto forte di “fondazione” rispetto alla categoria di “possibilità”, e, dall’altro, pone l’accento sulla dimensione della ricerca di un “passato autentico”, fondativo, invece che sulla dimensione del futuro, che è il cuore delle pratiche di culto napoletane secondo la lettura che ne dà l’etnologo tedesco.
Il “mondo sotterraneo” napoletano di Van Loyen è ovviamente erede della Napoli porosa di Walter Benjamin. Anche qui i morti dei culti delle anime sono prima di tutto spettatori convocati per mettere in scena ipotesi di altre vite possibili, mostrando come la porosità costitutiva di Napoli possa essere rilanciata da veri e propri atti di creazione, e non certo da una sua civilizzazione, in particolare in una fase storica in cui tutte le forme di modernizzazione o normalizzazione sono in radicale crisi. Il contesto sociale e culturale ricostruito da Van Loyen suggerisce che sono possibili pratiche capaci di aprire al futuro le asincronie di Napoli proprio tenendo conto della sua cifra spaziale, della sua porosità. Come ha detto di recente il filosofo Maurizio Zanardi, il paradosso – solo apparente – è che solo chi sa interrompere, sviare o anche recidere i flussi (le tradizioni, le continuità storico-religiose, le pratiche sociali), può anche salvarli in quanto flussi produttivi di ulteriori passaggi, forieri di divenire, capaci di creare nuovi spazi e configurare relazioni umane e sociali inedite. Come testimonia in modo particolarmente evocativo lo scambio con la sfera dei morti centrale in questi culti, non ha senso opporre la vita di una città al morire, ma bisognerebbe saper opporre il vivere/morire alla morte che non è più in grado di vivere e divenire.
Ulrich van Loyen, Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città, Meltemi, Milano 2020.