Mi ha sempre profondamente colpito, pensando a Alain Resnais, il fatto che tra i 33 e i 41 anni, tra il 1955 e il 1963, questo regista – tra i più grandi creatori di forme che il cinema abbia conosciuto – si sia incaricato di mettere in fila, inframezzandoli con altri lavori di straordinario valore, tre film impressionanti (lo furono allora, non smettono di esserlo oggi) che in modi diversi si misuravano, nell’ordine, con i campi di sterminio (Notte e nebbia, 1955), l’atomica (Hiroshima mon amour, 1959), la guerra d’Algeria (Muriel, il tempo di un ritorno, 1963).
A riprova non soltanto della capacità di Resnais di sorreggere, attraverso la propria pratica filmica, in termini sia espressivi sia morali, temi tanto grandi e gravi, ma anche – e questo è forse ciò che, più del resto, ancora colpisce – del coraggio di affrontare, uno dopo l’altro, appunto, quegli stessi temi. Come se nel lavoro di questo autore, mentre il cinema moderno trovava in quelle stesse stagioni, e dopo l’esperienza fondativa del neorealismo, le ragioni e le espressioni della propria autocoscienza, si rapprendesse l’indifferibile necessità di farlo.
Daney, la cui esperienza di ciné-fils semplicemente origina da Hiroshima e da Notte e nebbia (ma che pure, negli anni a venire, si sarebbe dispiegata, come il critico dirà più volte e in modi diversi, non con Resnais), ha descritto questo preciso ordine di problemi con la consueta acutezza. In Ciné journal, riferendosi ai tre film sopra ricordati come a dei «manoscritti redatti in versione originale in quella che Blanchot chiama “scrittura del disastro”», osservava:
Nella svolta degli anni '60 Resnais è stato qualcosa di più che un buon cineasta: un sismografo. Gli è capitata quella cosa orribile che è cogliere l'avvenimento fondante della modernità: che al cinema come altrove, bisognerebbe fare i conti con un personaggio in più: la specie umana. Ora, quel personaggio era stato appena negato (i campi di concentramento), atomizzato (la bomba), umiliato (la tortura) e il cinema tradizionale era assolutamente incapace di “restituire” tutto questo. Bisognava trovare una forma. Lo ha fatto Resnais (Daney 1999).
Attraverso Cayrol (per Notte e nebbia e Muriel) e Duras (per Hiroshima), dunque, Resnais trovava una forma – le grandi giustapposizioni tematiche, compositive, discorsive, del film sui campi e di Hiroshima, la discontinuità e la frammentazione estrema di Muriel – per (provare a) dire quanto era avvenuto.
Meno celebre, almeno per il grande pubblico, di Hiroshima mon amour, che accompagnava l’affermazione della Nouvelle Vague, o dello stesso L’anno scorso a Marienbad (1961), ma non meno compiuto, Muriel, il tempo di un ritorno, scritto da Jean Cayrol, è senz’altro uno dei capolavori di Resnais e del cinema moderno tout court. Di quei due film, che immediatamente lo precedono, non conservava l’andatura per molti versi incantatoria, ipnotica (così disse Resnais) e si raccoglieva invece nei tratti nervosi di un’inquietudine incomponibile e senza vie d’uscita.
Mosso, quasi ansimante (come lo è in particolare l’interpretazione, magnifica, di Delphine Seyrig), tesissimo e insieme lucido e rigoroso, nelle singole articolazioni interne come nella struttura generale – è idealmente diviso in cinque atti –, perfettamente sospeso tra istanza testimoniale e ricerca linguistica, tra postura in senso largo politica e sperimentazione, tra etica e scrittura – che è una delle cifre portanti del primo cinema di Resnais, ma qui con un sorprendente equilibrio delle polarità in gioco –, Muriel è un grande film corale, aspro e difficile, non privo di marcate cadenze teatrali, e una nuova, vertiginosa riflessione sul tempo, in cui tornano a incontrarsi memoria personale e memoria collettiva, dramma individuale e orrore della Storia e in cui, nelle maglie di una quotidianità banale e ripetitiva, si agita un’umanità piccola, attonita, travolta dall’enormità di ciò che è stato (la Seconda guerra mondiale, la guerra d’Algeria) e del tutto incapace di comunicare.
Una Boulogne-sur-Mer autunnale, cupa e luminescente insieme, divisa tra la distruzione apportata dalla guerra, i cui segni restano su di essa ancora ovunque visibili, e nuove e moderne costruzioni, avvolge in un’atmosfera sinistra, allucinata, i personaggi principali del film, che l’attraversano senza sosta: la fragile e sofferente Hélène, una donna non più giovane che ha chiamato a Boulogne, ospitandolo per molti giorni nella sua casa, in cui vende mobili antichi, il suo primo amore, dal quale si separò negli anni della guerra; Alphonse, che fu quell’antico amore, che ha raggiunto Boulogne accompagnato da una sedicente nipote, in verità la sua giovane amante, e che è un millantatore e uno spiantato; Bernard, il figliastro di Hélène, rientrato da diversi mesi dalla guerra d’Algeria, ossessionato dal ricordo di una donna, Muriel, vittima, durante il conflitto, di una tortura cui lui stesso ha preso parte e che è stata uccisa.
Accanto a loro si muovono Françoise, la falsa nipote di Alphonse, De Smoke, l’attuale amante di Hélène, Marie-Do, la fidanzata di Bernard, Robert, che Bernard indica come l’uomo che ha avuto un ruolo primario nella tortura e nella morte di Muriel, Ernest, che è sulle tracce di Alphonse per riportarlo dalla moglie Simone. Quest’ultima giunge infine a Boulogne, nell’estrema conclusione del film, a cercare suo marito nella casa che lo ospitava e che lei ora trova deserta. Cifra di un vuoto per nessuna via colmabile e dell’impossibilità di configurare un ordine del senso nelle esistenze di ognuno (Bertetto 1981), segno di un malessere integrale cui si intona l’intera conformazione del film (Liandrat-Guigues, Leutrat 2006).
Intorno a questi personaggi, a partire dalla sconvolgente rivelazione della tortura che Bernard fa al vecchio Jean mentre gli mostra immagini amatoriali di vita quotidiana di soldati in Algeria, l’ombra lancinante di Muriel, che esiste unicamente in quanto mancanza inaudita e irreparabile, investe la rappresentazione e ne diviene il nucleo irradiante e centripeto che sembra richiamare a sé tutti i movimenti dispersivi che ne innervano il funzionamento e che chiede allo spettatore di corrispondere al lavoro memoriale che il film effettua e che i suoi personaggi, pur a diversi livelli, non riescono a effettuare (Mengoni 2009). Per raccogliere prove, Bernard filma di continuo ciò che lo circonda, ma oscuramente, apparentemente senza alcun costrutto, e tiene un diario in cui compare ovunque il nome di Muriel. Uccide infine Robert, esitando fino all’ultimo istante e prolungando all’infinito la disperazione che abita le sue azioni.
La gravità del passato, lontano vent’anni o molto recente, infiltra ovunque il presente e non cessa di insistere come un assillo oscuro, che pure non trova il modo di essere propriamente configurato (Montani 1999) – d’essere effettivamente condiviso da Hélène e Alphonse, di dar corso a un autentico processo di elaborazione del proprio debito, per Bernard – e che non fa che concretarsi in tracce, in resti, in lacerti d’esperienza, in frammenti sempre mancanti, incompiuti o inadeguati. E tutto intero lo stile del film, la sua articolazione discorsiva che infrange ovunque l’orizzonte della linearità narrativa e il funzionamento stesso del racconto (De Vincenti 2010), il suo ritmo sempre spezzato, la stessa colonna musicale di Hans Werner Henze (e in particolare gli inserti cantati da Rita Streich, su testi di Cayrol) sembrano propriamente mimare, attraverso una messa a sistema del frammento, un uso radicale dell’ellissi, della ripetizione, della frantumazione come figura compositiva che ha ovviamente nel montaggio il suo principale operatore, quella stessa mancanza e incompiutezza, ma anche quell’inquietudine permanente cui sopra accennavo.
La magistrale costruzione della prima, ampia macro sequenza del film – che descrive l’arrivo di Alphonse e Françoise alla stazione di Boulogne, la camminata dei due con Hélène verso casa, il segreto smarrimento di ognuno, la cena già difficile con Bernard, gli scambi tra i due ex amanti, quelli tra i due giovani, l’arrivo della notte – reca già molto evidentemente i segni di questo vasto lavoro formativo, mentre saranno soprattutto le parti successive a fornirne configurazioni sistematiche e propriamente strutturali.
La guerra, la rovina, l’orrore sono ciò da cui origina il presente di Hélène, dello stesso Alphonse, di Bernard (come pure delle altre figure che li attorniano, benché non lo sospettino neppure e di Boulogne tutta intera, «città martire», ricorda Alphonse, mentre Hélène non sa più dire, non ricorda, non riesce a farlo, il numero dei morti, «duecento o tremila…»). Il personaggio di Resnais, così aveva detto Deleuze ripensando Prédal (e Cayrol), è dunque, di nuovo, colui che «ritorna dalla morte, dal paese dei morti: è passato attraverso la morte e nasce dalla morte di cui conserva i disturbi senso-motori» (Deleuze 1989). Il tempo del ritorno non ha luogo che in questo passare e in questo nascere.
A sessant’anni dalla sua apparizione, Muriel non è affatto invecchiato. Rivederlo oggi, a distanza di tanto tempo, consente di misurarne ancora la smagliante intensità, la complessità espressiva, tecnico-formale, narrativa, così come la postura testimoniale e politica. Forse, più di tutto, rivedere un film come Muriel ci ricorda che non smettiamo d’aver bisogno di riconoscere ovunque intorno a noi un cinema capace di corrispondere al richiamo del mondo e insieme di sforzarsi di essere all’altezza, così ancora avrebbe detto Daney, di quello stesso richiamo.
Riferimenti bibliografici
P. Bertetto, Alain Resnais, La Nuova Italia, Firenze 1981.
S. Daney, Ciné journal, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, Roma 1999.
G. De Vincenti, Muriel ou le temps d’un retour (A. Resnais, 1963), in G. Tinazzi, a cura di, Il cinema francese attraverso i film, Carocci, Roma 2011.
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.
S. Liandrat-Guigues, J.-L. Leutrat, Alain Resnais. Liaisons secrètes, accords vagabonds, in “Cahiers du Cinéma”, Paris 2006.
A. Mengoni, “Accumulare prove”. Trauma e lavoro memoriale in “Muriel” di Alain Resnais, in Id., Racconti della memoria e dell’oblio, Protagon, Siena 2009.
P. Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini, Milano 1999.
Muriel, il tempo di un ritorno. Regia: Alain Resnais; sceneggiatura: Jean Cayrol; fotografia: Sacha Vierny; montaggio: Claudine Merlin, Kenout Peltier, Eric Pluet; scenografia: Jacques Saulnier; interpreti: Delphine Seyrig, Jean-Pierre Kérien, Nita Klein, Jean-Baptiste Thiérrée, Claude Sainval, Laurence Badie; produzione: Argos Films, Alpha Productions, Eclair, Les Films de la pleaiade, Dear Film Produzione; distribuzione: Dear Fox – Vivivideo; origine: Francia; durata: 115′; anno: 1963.