Il nero dello sfondo si staglia su due corpi, informi, anonimi, coperti di cenere. Ha le fattezze di un momento aurorale l’inquadratura iniziale di Hiroshima mon amour, il primo lungometraggio di Alain Resnais con la sceneggiatura di Marguerite Duras.

A chi appartengono questi corpi, avviluppati fino a rendersi difficilmente distinguibili l’uno dall’altro, mentre i pulviscoli continuano a cadere copiosi in un angolo dell’inquadratura? Potrebbero essere due amanti ma anche dei moribondi. Dopo una dissolvenza, ecco riapparire le spalle e le braccia, questa volta intrisi di una sostanza liquida simile a pioggia, una rugiada che li bagna e li immerge in una miriade di punti luminescenti. Dopo una seconda dissolvenza i due corpi riappaiono, sudati, avvinghiati l’uno all’altro. Non sono più i corpi agonizzanti della distruzione atomica poiché, nell’inquadratura successiva, una mano di donna si aggrappa alla spalla di un uomo, stringendola come in un amplesso.

L’inimmaginabile della distruzione – Resnais ha volutamente escluso dal film l’immagine del fungo atomico – trova una forma, seppur precaria e instabile, nel susseguirsi degli abbracci. Il montaggio rende compresenti le vittime ai corpi sopraffatti da un amore consumato in una notte. Le lente dissolvenze incrociate e la musica orchestrale suturano livelli temporali differenti e passioni opposte, creando dei piani di coalescenza tra l’allora dell’esplosione atomica e l’adesso della passione, tra la disforia della morte e l’euforia dell’innamoramento.

Nella stretta dell’abbraccio, ancora anonimo vista l’assenza dei volti, inizia il dialogo tra i due corpi (Lui: “Tu non hai visto niente a Hiroshima”. Lei: “Io ho visto tutto. Tutto”), mentre il movimento filmico rivela Hiroshima dopo l’attacco nucleare. Le carrellate della macchina da presa, accompagnate in un primo momento al dialogo tra i due amanti e poi alla voce narrante di Emmanuelle Riva, svelano progressivamente Hiroshima, gli strati di realtà e i sedimenti di memoria che si sono accumulati tra le macerie della tragedia.

Ed ecco l’ospedale, con i suoi corridoi, i malati; il museo con le fotografie, le ricostruzioni, i resti di metallo deformato dal calore, i residui di epidermide ustionata, le capigliature bruciate e le riproduzioni in cera. Ecco la desolazione in Piazza della Pace, i cinegiornali che documentano i giorni successivi al disastro, i cortei dei manifestanti, i souvenir della tragedia, il Cenotafio, i turisti, lo scheletro del Palazzo dell’industria, Hiroshima ricostruita, i sette bracci dell’estuario a delta del fiume Ota, i lungofiume. Attraversare questi spazi vuol dire – come spesso accade nel cinema di Resnais – districarsi tra falde di passato e giacimenti di memorie che premono su un presente ancora lacerato dai traumi del secondo conflitto mondiale.

Hiroshima mon amour è, fin dal titolo, un film fondato sulla contraddizione che è anche un’impossibilità – d’altronde ben realizzata – di raccontare la storia di un’amore “collaborazionista” di una donna con un soldato nazista ucciso a Nevers (il trauma che Lei è costretta a rivivere mentre si trova a Hiroshima, dove è giunta per girare un film sulla pace) all’interno di una topografia urbana deformata dalla devastazione post-atomica (la catastrofe collettiva). Solo attraverso questi ossimori visivi e narrativi sarà possibile raccontare senza documentare, testimoniare senza commemorare.

Gli abbracci del film di Resnais sono l’immagine che permette al tra-due dell’amore di tenere uniti due sconosciuti e, al contempo, di intrecciare le storie di due singolarità con quelle di una memoria-mondo che si protrae fino al nostro presente. Perché quello che stiamo vivendo è un presente colonizzato dalla necessità dell’isolamento ma alimentato dal desiderio di ristabilire la nostra umanità, da sempre fondata sulla relazione. Oggi, malgrado l’emergenza virale che abita la nostra quotidianità, Hiroshima mon amour torna a raccontarci del desiderio di riabbracciarsi.

Hiroshima mon amour. Regia: Alain Resnais; soggetto: Marguerite Duras; sceneggiatura: Marguerite Duras; fotografia:  Sacha Vierny, Michio Takahashi; montaggio: Henri Colpi, Jasmine Chasney, Anne Sarraute; musiche: Georges Delerue, Giovanni Fusco; interpreti: Emanuelle Riva, Eiji Okada; produzione: Pathé;  distribuzione: Globe origine: Francia, Giappone; durata: 90′; anno: 1959.

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