Io, nella mia immagine intricata,
avanzo su due piani,
Modellato con minerali d’uomo,
oratore d’ottone,
Costringo il mio spettro nel metallo,
Mi bilancio sui due piatti
di questo mondo gemello,
Il mio mezzo spettro in armatura
tengo saldo nel corridoio della morte,
Al mio uomo di ferro
mi avvicino di sghembo.
Dylan Thomas

dylan-home

Bob Dylan avanza da sempre su due piani, nella sua intricata immagine, proprio come aveva scritto di sé Dylan Thomas, il poeta a cui Robert Zimmerman aveva preso in prestito il nome nel 1960, quando suonava nel giro di Minneapolis (il prestito si consolidò in possesso nel 1962). Dylan non si chiamava Dylan da molto, quando Lee Oswald uccise John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre 1963. Le cronache musicali riportano che Elvis scoppiò in lacrime davanti al televisore e che i Beach Boys, indecisi se annullare o meno un loro concerto a Marysville, optarono per suonare: e nel pomeriggio, durante il soundcheck, Brian Wilson terminò di scrivere una canzone che aveva cominciato a imbastire il giorno prima, “Warmth of the Sun”, che si chiude con questi versi “Il mio amore è come il calore del sole, e non morirà mai”. Nei pensieri di Bob Dylan, invece, JFK muore ogni giorno.

Bob Dylan non scrisse una canzone sul tema, ma tre mesi dopo l’assassinio del presidente si trovava in tour, diretto a Denver da Jackson, Mississippi, e decise di fare una sosta a Dallas per percorrere le strade che erano state fatali a JFK. Nello stesso periodo, scriveva poesie in versi liberi, che ci sono note come “Manoscritti Margolis e Moss”, dal nome degli antiquari che anni dopo hanno venduto all’asta queste carte di Dylan, rinvenute in casa di qualche amico dell’artista al Greenwich Village. Tra le poesie scritte nel 1963, spiccano The Kennedy Poems, in cui Dylan si rivolge prima alla vedova (“Mrs Kennedy… you were crawlin / on all fours … I saw you / they printed you that way / for the curiousity seekers” e aggiunge anche “yes I too was forced into acceptin’ my role as curiousity seeker”) e poi al presidente ucciso (“Mr President I too take off my hat to you”).

Nessuna di queste poesie diventerà una canzone, fatta eccezione per sei versi che fanno riferimento a un venerdì dai colori opachi (il 22 novembre 1963 era un venerdì) e alle campane di una chiesa: i versi sulle campane finiranno nel testo della celeberrima “Chimes of Freedom”, contenuta in “Another Side of Bob Dylan” del 1964. Non serve dire che il suo autore ha sempre negato che la canzone contenesse allusioni all’assassinio di Kennedy, tuttavia è spesso inserita nel novero di canzoni che vi fanno riferimento.

Prima ancora di scrivere i “Kennedy Poems” e “Chimes of Freedom”, Dylan aveva affrontato l’argomento in un discorso pubblico molto controverso, in occasione del conferimento del premio “Tom Paine”, assegnato annualmente dal  National Emergency Civil Liberties Committee. Durante il discorso, nello stupore generale, Dylan infilò un impensabile gesto di empatia nei confronti di Lee Oswald, scatenando le ire del pubblico. Questo il passaggio incriminato, nella traduzione italiana di Nicola Manuppelli: “[…] voglio e devo essere onesto e voglio ammettere che l’uomo che ha sparato al presidente Kennedy, Lee Oswald, non so esattamente […] cosa pensasse di fare, ma devo ammettere onestamente che anch’io ho visto un po’ di me in lui. Non credo, non penso fino a questo punto. Ma voglio essere onesto e dire che ho capito ciò che poteva provare, in me… anche se non mi sarei spinto tanto lontano da arrivare a sparare”.

Le sensazioni legate a questo infelice incontro ispirano a Dylan una parte del testo di “As I Went Out One Morning”, pubblicata nel 1967 sull’album “John Wesley Harding”. Nell’immediato, invece, risponde alle accuse di oltraggio con una poesia destinata al NECLC, che però non sembra avere la funzione di scusarsi né di discolparsi; si tratta di un testo che restituisce, come sempre in Dylan, un’intricata immagine dell’artista, e che riecheggia il Brecht di Santa Giovanna dei Macelli (“Solo violenza aiuta là dove regna violenza”), in questi versi che di fatto riaffermano quanto detto durante l’acceptance speech: “If there’s violence in the times then / there must be violence in me”.

Le sensazioni del 1963 continuano a scorrere nel corpus dylaniano come un fiume carsico fino al 27 marzo del 2020, quando l’artista rilascia sulle piattaforme digitali un brano intitolato “Murder Most Foul”, dalla durata abnorme (16 minuti e 54 secondi) e dal testo torrenziale (1.408 parole); tanto per fare confronti quantitativi con alcuni classici del suo repertorio, “Desolation Row” ne contiene 657, e “Hurricane” ne contiene 869, poco più di “Highlands” (861), dalla sua produzione più recente, che pure è un brano lunghissimo (16 minuti e 31 secondi), della stessa taglia di “Murder”.

Come ha spiegato molto bene Sandro Portelli in una puntata di Fahrenheit (Radio3) dedicata a “Murder Most Foul”, la chiave interpretativa del testo è nel titolo shakespeariano, da Amleto, che fa riferimento all’assassinio del re; per Portelli “nella tradizione della letteratura americana c’è questa immagine della decapitazione del re come una figura della perdita del senso”. La circolarità ininterrotta della progressione armonica e l’opacità della tessitura strumentale non sono dunque un semplice punto d’appoggio per l’interpretazione di un testo; non si tratta di un reading di poesia, ma di una canzone che ha bisogno della durata non solo e non tanto per dire delle cose, ma per condurre l’ascoltatore a uno stato di trance, di perdita del senso appunto. Il gran numero di guide alla lettura del testo di “Murder Most Foul” pubblicate in tutto il mondo in queste settimane rende sostanzialmente inutile ripercorrere le strofe di Dylan e ricostruire un’enciclopedia del brano.

Agli appassionati di cinema non dispiacerà certo andare in cerca dei numerosi riferimenti cinematografici: il primo è piuttosto inaspettato, Nightmare on Elm Street di Wes Craven, che non è ambientato a Dallas, sebbene Elm Street sia proprio la strada dell’assassinio di Kennedy; il secondo è Goodbye Charlie di Vincent Minnelli, poi ci sono citazioni di battute proverbiali come “Frankly, Miss Scarlett, I don’t give a damn” da Via col vento, e ancora icone del cinema convocate come persone (Marilyn Monroe, Buster Keaton, Harold Lloyd) e come personaggi (Terry Malloy, il personaggio interpretato da Marlon Brando in Fronte del porto).

Scorrono ancora film, che la voce di Dylan invita a riprodurre (“play”), in un cineforum psichedelico che mette insieme Accadde una notte di Frank Capra e Solo sotto le stelle di David Miller. Seguendo la voce, assecondandola mentre si inoltra nella storia, ci si accorge che l’uomo del 1963 che scrisse i Kennedy Poems e che riconosceva una parte di sé stesso in Lee Oswald, l’uomo che viaggiava da Jackson a Denver e si fermò a Elm Street, è tornato a Dallas, e questa canzone è la sua storia, la storia di un oratore d’ottone e di un uomo di ferro.

Il songwriter australiano Nick Cave, entusiasta di “Murder Most Foul” che è proprio una murder ballad nelle sue corde, ha dichiarato ai fans: “Ascoltiamola come se fosse l’ultima canzone di Dylan”. Non si sa se Dylan abbia gradito; ma vediamo che ha immediatamente rilasciato un nuovo brano, “I Contain Multitudes”, in cui dice quello che abbiamo sempre saputo di lui: “I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods, I contain multitudes”.

Riferimenti bibliografici
K.J.H. Dettmar, The Cambridge Companion to Bob Dylan, Cambridge University Press, Cambridge 2009.
R. Shelton, No Direction Home: The Life and Music of Bob Dylan, Da Capo Press, Boston 2003.
D. Thomas, Poesie, Einaudi, Torino 2007.

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