Quale arte oggi è più contemporanea di quella che ti getta come cosa tra le cose? Cose cadute e dimenticate, date in pegno e lasciate in soffitta. Cose che, nonostante la polvere, mantengono ancora tutto il potere delle tracce in esse impresse. Un’immersione che porta al tempo stesso dentro e fuori di sé, ipnotizzante e straniante. Una galleria di oggetti mandati in rovina per avere “liquidità”, che restituiscono però il riflesso delle nostre identità disinvestite, ma comunque ancora incardinate in oggetti. I quali dunque a loro volta imprimono tracce su di noi. L’operazione di Monte di Pietà, progetto presentato alla Fondazione Prada di Venezia e concepito dall’artista Christoph Büchell, è resa possibile proprio dalla cancellazione scrupolosa delle tracce dell’enunciazione, delle “insegne” del discorso, degli indicatori dei livelli di realtà.
Meteoriti, tredici coppe del Campionato di calcio, una pietra pomice rubata a Pompei e restituita, una cyclette, i resti di una cena, un cannocchiale, un televisore Telefunken, un ciclomotore Moto Guzzi Motom 48cc, il gioco da tavolo Trump: the game – vince chi guadagna più soldi, un bracciale d’argento, una mitragliatrice disattivata, manette per schiavi forgiate in ferro in Etiopia, un monitor al plasma, quattro letti kingsize, centoventi piatti Unione Ristoranti del Buon Ricordo, collezionate da una coppia milanese nei propri viaggi gastronomici “rappresentativi della cultura popolare italiana e decorati a mano nel 1964 a Vietri sul mare”, la copia della Venere di Cirene, un ciondolo a forma di croce, un antico set di protesi oculari acquistato in India, un Tiziano, quattro mappamondi, diverse centinaia di libri, dodici paia di sci e cinque racchette, una bilancia da orafo. Tutto questo da moltiplicare per un numero infinito di cose, stipate fino a riempire piano terra, mezzanino e primo piano nobile di Ca’ Corner.
All’ingresso è ancora possibile difendersi, magari pensando di entrare nella galleria degli orrori di un parco giochi, con lo stesso eccitante smarrimento. Ma poi gli oggetti hanno il sopravvento, seppure nella loro fissità. Perché tutto è immobile.
L’oscuramento delle tracce dell’enunciazione fa dimenticare di essere a una mostra e questo non solo ha un effetto di amplificazione. Ma annulla la presenza di un centro. Nel catalogo infinito degli oggetti l’unica cosa che manca è l’uomo. A ben guardare, dall’accumulo di oggetti nel Monte di Pietà non emerge né una rete, né un insieme, ma una disseminazione senza un principio ordinatore. Non «c’è dell’Uno» ma solo strati «che si stratificano in regioni parziali», per dirla con Bruno Latour: «Lotti», per dirla nel modo in cui sono presentati nel catalogo della mostra.
Ogni «lotto» è condizione di una certa attività ed effetto di quella attività: la cameretta di un ragazzino, i monitor di un centro di sorveglianza, una tavola ancora non sparecchiata dopo la cena, una lavanderia a gettoni: sono tutti concatenamenti di pratiche locali che hanno effetti locali di soggettivazione.
L’ontologia che emerge da Monte di Pietà, per cui Fondazione Prada può dire di posizionarsi beyond, è quella di un Essere che è pensato, fabbricato e stratificato, condizione ed effetto delle nostre pratiche. Detto altrimenti: non esiste un’umanità data a priori né culturale né naturale. Ad umanizzare l’uomo, a fare la sua umanità, sono circuiti di cose. Per cui ogni cosa agisce sull’altra, in un’agency senza centro.
Una certa idea di Uomo, di epoca in epoca, consentiva determinate conseguenze, radunava energia, intorno a determinati progetti. È quel paio di sci a fare da dispositivo temporaneo della mia soggettivazione. Lasciare in pegno quel paio di sci mi consente di sbloccare risorse, ottenere capitale e far girare flussi di capitale, flussi di investimenti pulsionali. Eppure quel paio di sci caduto dalla mia identità continua a essere dispositivo di soggettivazione, continua nel suo legame di pegno.
Il Monte di Pietà mostra questa enorme agency disseminata che hanno gli oggetti, soprattutto dimostra come questi legami abbiano un effetto di ritorno nel formare l’uomo. Ma cosa succede se l’uomo non c’è più? Mettendo in scena il proprio fallimento, Monte di Pietà ci costringe fino ai limiti di questa domanda.
L’effetto angoscioso però è legato alla mancanza di distanza tra soggetto e oggetto, tra chi visita una galleria e l’oggetto d’arte. In questo caso una rappresentazione dell’umano, una traccia dell’enunciazione, avrebbe giocato da filtro. L’intenso legame che il Monte di Pietà ha con la possibilità di accedere al flusso di capitale ci catapulta così in un Inconscio che non è un teatro, ma un processo a diretto contatto con le cose. Se il punto di massimo spavento sta nell’angoscia della perdita della barriera di contatto è pur vero che l’immersione “senza filtro” nell’immanenza è anche la condizione della creatività e della vita. Siamo nel farsi di Inconscio quando avviene un contatto tra desiderio e produzione. Per Bion senza schermo del sogno si ha una condizione psicotica che impedisce di distinguere il sonno dalla veglia, la realtà dall’incubo. C’è da chiedersi come mai oggi l’arte celebri la “cosa”, non più sognata, sempre meno la rappresentazione, sempre più produzione di produzione.
Qualcuno ne sarà spaventato. Altri ne saranno contenti. Fate voi. Stiamo dicendo che gli oggetti lasciati/abbandonati al Monte di Pietà, un tempo sono stati di proprietà di qualcuno, hanno avuto una rappresentazione. La rappresentazione non è altro che questa proprietà illusoria “questo è mio, questo sono io”. Gli stessi oggetti oggi sparpagliati sono senza rappresentazione e in tal senso la perdita del loro “essere di proprietà” diventa l’inizio del loro “avere una proprietà”, un potere su di noi.
Solitamente al Monte di Pietà si va per dare un oggetto in pegno in cambio dello sblocco di una liquidità. È il classico meccanismo che la psicoanalisi conosce bene, un disinvestimento come condizione che libera nuove energie per investimenti ulteriori: metafora capitalistica del mondo interno. Ma il Monte di Pietà di Ca’ Corner, che contiene idealmente tutti gli oggetti del mondo, è in fallimento. Cosa è successo? Le tracce si trovano nello stesso luogo del delitto, sempre a Venezia. In questo caso a Punta della Dogana, alla Collezione Pineault, nella mostra Liminal di Pierre Huyghe. In una sala al buio un grande schermo luminoso mostra uno scheletro umano, nel deserto. Qua e là i segni di resti del suo essere stato uomo, brandelli di tessuti, la suola di una scarpa.
Tutto intorno, come a celebrare il suo funerale, lo osservano telecamere collegate a braccia robotiche. I teleobiettivi scorrono il perimetro dello scheletro, dalla testa ai piedi, come se non riuscissero più a riconoscere e cogliere di cosa si tratti. Se è una celebrazione rituale, si tratta di un funerale, in cui a essere morto, fallito, è l’accordo tra cose e uomo. L’arte ci sta parlando delle nostre angosce. Anzi del fantasmi collettivi che iniziano ad organizzare le nostre future angosce.
Monte di Pietà, progetto di Christoph Büchel, Fondazione Prada, Venezia 20 Aprile – 24 Novembre 2024.
*Foto: Marco Cappelletti. Courtesy: Fondazione Prada.