Che cosa c’entrano il carcere e il monte di pietà con l’arte contemporanea? Due istituzioni apparentemente lontane dalla luce sfavillante di mostre e gallerie. Andiamo con ordine, accettando di partire da un rapido preambolo riguardante l’Estetica.

Scienza della conoscenza sensibile, secondo la definizione del suo “inventore” moderno, Alexander Baumgarten, o, in un senso più ristretto, filosofia dell’arte, la disciplina appare polimorfa per vocazione e continua a tenere in sé un ampio spettro di indirizzi di ricerca, sommariamente riconducibili alla dicotomia qui richiamata. Le due declinazioni principali dell’Estetica trovano un punto di raccordo nella domanda circa l’esperienza che l’osservatore (il visitatore, lo spettatore) è chiamato a fare entrando in contatto con l’opera (l’ambiente, la scena) allestita dall’artista. Fermo restando che, secondo la felice intuizione di Michel de Certeau (1980), della «produzione dei consumatori» – di quanto, cioè, i destinatari della produzione culturale ufficiale fanno di ciò che viene loro proposto – nessuno, e tanto meno gli artisti, possono essere pienamente avvertiti e consapevoli, è pur vero che gli artisti, coloro che “organizzano la percezione”, di fatto predispongono alcune linee di forza, alcuni percorsi percettivi che costituiscono un invito a compiere una particolare tipologia di esperienza.

Chiedendoci dunque quale tipo di esperienza sono invitati a compiere i visitatori – e non che tipo di oggetto venga loro proposto, o che senso esso possa mai avere –, osserviamo ora due esempi recenti, anzi tuttora visitabili a Venezia: l’installazione Monte di Pietà di Christoph Büchel presso la Fondazione Prada e il Padiglione vaticano della Biennale 2024, Con i miei occhi, curato da Chiara Parisi e Bruno Racine presso la Casa di detenzione femminile della Giudecca. Ponendo in risonanza i due progetti, cercheremo di cogliere i diversi timbri esperienziali prodotti dai due allestimenti.

Il progetto di Büchel viene presentato sul sito web della Fondazione Prada come

un’approfondita indagine del concetto di debito come radice della società umana e veicolo primario con cui è esercitato il potere politico e culturale. [...] “Monte di Pietà” si sviluppa come un’installazione immersiva che si articola nel palazzo di Ca’ Corner e, in particolare, nel piano terra, mezzanino e primo piano nobile. Il progetto consiste in un banco dei pegni in fallimento basato sull’aspetto originale del Monte di Pietà di Venezia.

In quella che, prima di ospitare la Fondazione Prada, era effettivamente la sede del Monte di Pietà di Venezia, viene messa in scena la bancarotta di un banco dei pegni e, con essa, la demistificazione dell’imperativo al godimento tipico di quello che Jacques Lacan chiama il “discorso del capitalista”. Le stanze antiche invase dal ciarpame di un mercatino delle pulci (che però, con tutta probabilità, deve risultare esotico agli occhi del visitatore ideale di Büchel) conservano l’odore acre del tempo che impolvera gli oggetti dismessi. L’installazione è vasta e curata nei minimi dettagli, perfetta ricostruzione di un cimitero del desiderio di possesso, il cui cadavere è la “roba”. Frammisti agli oggetti d’uso dismessi, si incontrano opere d’arte “vere” ma che per lo più rimangono sotto la soglia di consapevolezza del visitatori: lavori di Duchamp, Warhol, Klein e Manzoni, oltre a The Diamond Maker dello stesso Büchel, «una valigia contenente diamanti realizzati in laboratorio […] risultato di un processo fisico e simbolico di distruzione e trasformazione dell’intero corpus di opere in possesso dell’artista» (Fondazione Prada). 

La critica vuole essere sferzante e dissacrante, compendiata dalla rivista aperta su quella che, supponiamo, possa essere la scrivania di un custode, con un’intervista a Miuccia Prada. Si percorrono i diversi ambienti – l’esposizione della merce, un set pronto per una diretta social, un ufficio di sorveglianza, una cella, una cappella ornata da una panoplia di protesi a mo’ di ex voto – dove verità e finzione, arte e non arte, opera e oggetto d’uso si confondono, posti sotto il segno di una sottile inquietudine e di un ripensamento del meccanismo che, nella nostra società, lega debito e credito.

Cambio di scena. Il Padiglione vaticano inizia già fuori dalle mura del carcere della Giudecca, con i monumentali piedi, scalzi e dolenti, che Maurizio Cattelan ha posto sulla parete esterna dell’edificio. La visita si discosta fin dall’inizio da un’abituale esperienza museale: il controllo dei documenti, la consegna dei propri effetti personali alle agenti della polizia penitenziaria segnano l’ingresso in un dentro abitualmente impermeabile al mondo di fuori. Come recita la nota di presentazione:

Nel Padiglione tutto è frutto di un’energia che sfida le convenzioni artistiche e quelle carcerarie, dove progetti pragmatici si intrecciano con la creatività di mondi solitamente paralleli, stranieri l’uno all’altro, in linea con l’urgenza del dialogo poliedrico proposto da papa Francesco. Parole e immagini si fondono grazie alle detenute, agli artisti e ai poeti che contribuiscono alla narrazione artistica e storica del luogo, dove la visita al padiglione è un percorso guidato dalle detenute-conferenziere. Questo progetto apre prospettive inedite sulle dinamiche sociali e artistiche, sfidando pregiudizi e convenzioni, riflettendo sulle strutture di potere nell’arte e nelle istituzioni.

Il percorso è obbligato e le detenute guidano i visitatori lungo i locali del carcere riconvertiti in spazi espositivi. Non si può dire che gli interventi non siano site-specific: la cappella della Maddalena diventa una jungla di liane colorate (opera di Sonia Gomes) che obbligano a guardare verso l’alto; la caffetteria si illumina delle scritte di pace del pop artist Corita Kent. La scritta blu di Claire Fontaine, Siamo con voi nella notte, percorre come un brivido elettrico la facciata del cortile interno della casa circondariale, le cui ospiti hanno prestato agli artisti le proprie foto più care (rielaborate da Claire Tabouret), le proprie parole (fissate da Simone Fattal su placche di lava smaltate) la loro stessa immagine (ripresa nel cortometraggio di Zoe Saldana e Marco Perego).

Riprendiamo la nostra domanda iniziale: quale tipo di esperienza sono invitati a compiere i visitatori nei due casi presi in esame? Il carcere e il monte di pietà, accomunati da un tratto eccentrico e sorprendente, definitivamente distante da una concezione dell’arte come rifugio e pacificazione, si presentano in realtà come due esperienze distanti e potenzialmente in tensione tra loro. A fronte di una comune istanza critica, rivolta in un caso al sistema economico e nell’altro all’emarginazione prodotta dalla “cultura dello scarto”, le esperienze che vengono proposte nei due casi tracciano sentieri divergenti, inscritti nelle stesse modalità di accesso alla fruizione. 

La perfetta mimesi del banco dei pegni gioca in maniera illusionistica e straniante sul tema del debito, ma invita il visitatore a compiere un’azione che rimane collocata all’interno della cornice abituale del mondo dell’arte: entrando si paga un biglietto, il personale nelle sale indica con discrezione il percorso lasciando però libero il pubblico di aggirarsi tra le rovine del capitalismo dal quale, tuttavia, neanche una critica aspra riesce davvero ad uscire. «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» scriveva Mark Fisher in Realismo capitalista (2009), riecheggiando il There is no alternative di Margaret Thatcher. Allo stesso modo, la critica artistica al capitalismo che fa da sottotesto al Monte di pietà di Büchel mostra performativamente che non c’è alternativa al capitalismo, capace di metabolizzare e digerire qualunque forma di contestazione. Il visitatore, in sostanza, visita il monte di pietà ma, in ogni caso, non può dimenticare di trovarsi nel palazzo della Fondazione Prada.

Il contrario di quanto avviene al carcere della Giudecca. Si va per vedere delle opere, e in effetti si effettua una visita (gratuita, su prenotazione, previo controllo dei documenti), si osservano i lavori degli artisti del Padiglione, ma non ci si può mai dimenticare di essere in un carcere. L’esperienza più rilevante compiuta dal visitatore è quella di una trasgressione, nel senso etimologico di “andare al di là”: chi entra, varca una soglia tra il dentro e il fuori, mettendo in discussione – almeno per un momento, ma con decisione – i punti cardinali del sistema carcerario. Per il tempo di una visita, quelli “di fuori” e quelle “di dentro” non sono più separati, si parlano, interagiscono e percorrono un tracciato – obbligato, è bene ricordarlo – attraverso il quale condividono l’incontro con opere che reclamano un lavoro di costruzione di senso. 

Nel monte di pietà si rimane dentro a una logica che l’esperienza sui generis della Giudecca rimette in discussione, rendendo indiscernibile per un momento il dentro e il fuori. Ed è lecito sospettare che proprio in questo genere di sospensione del dispositivo di inclusione ed esclusione si trovi il nucleo pulsante dell’esperienza artistica.

Riferimenti bibliografici
M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2010.
M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018.

Monte di Pietà, progetto di C. Büchel, Fondazione Prada, Venezia, 20 aprile 2024 – 24 novembre 2024.
Con i miei occhi, a cura di C. Parisi e B. Racine, Casa di detenzione femminile della Giudecca, Venezia, 20 aprile 2024 – 24 novembre 2024.

*foto di Marco Cappelletti, Monte di Pietà, Fondazione Prada.

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