Una donna, completamente nuda, con una voragine al posto del volto si muove in uno spazio desertico. È buio, ma non del tutto: un eterno crepuscolo si affaccia appena, siamo ancora molto prima dell’alba o forse molto dopo il tramonto. La donna vaga nell’ambiente ma talvolta i suoi movimenti si fanno convulsi. A tratti sembra soffrire, a tratti esplorare. In alcuni momenti tasta il terreno con le mani, in altri sembra che stia contando qualcosa, simboleggiando rozzamente tramite i gesti delle mani operazioni logiche astratte. Nei suoi spostamenti, ad un certo punto, la vediamo raggiungere una soglia, un confine oltre il quale tutto diventa nero, su cui si sporge.
Si chiama Liminal ed è l’opera con con cui inizia l’omonima mostra di Pierre Huyghe a Punta della Dogana a Venezia, realizzata nel 2024 e per la prima volta in esposizione. Concentreremo l’attenzione su di essa, intendendola come la parte per il tutto rispetto all’intera mostra. Nonostante le sembianze di un video, capiamo dalla texture della pelle e dai movimenti non sempre fluidi del corpo della donna che si tratta di una simulazione virtuale. In più, dalla descrizione apprendiamo che si tratta di una simulazione non registrata ma in tempo reale: l’opera è quindi sempre in divenire poiché reagisce alle condizioni dell’ambiente in cui è situata, e in cui siamo situati anche noi spettatori.
L’inermità della donna rispetto all’ambiente in cui si trova è evidente: essa è una creatura incapace di sopravvivere con le proprie forze nell’ambiente in cui viene gettata dalla nascita. Senza un prossimo disposto a prendersi cura di lui l’essere umano infatti morirebbe. Pierre Huyghe però colloca in questa condizione di inermità la figura che tradizionalmente supplisce ad essa: la madre, la donna. Dopo la nascita, l’ingresso dell’aria nei polmoni è il primo trauma provato dal bambino, ma l’apparato fonatorio è anche il primo strumento che l’essere umano ha a disposizione per comunicare con il suo prossimo. Se l’esterno irrompe anzitutto come una minaccia per l’equilibrio dell’organismo, l’urlo risponde a questa minaccia primordiale permettendo un primo scontornamento di essa: mentre è emesso ritorna indietro e può così segnalare l’esperienza del dispiacere. Un brano di mondo “maledetto” può essere isolato e riconosciuto come spiacevole. Ma il grido designa colui che lo emette solo a posteriori. Nel momento in cui viene emesso sembra provenire da un luogo che non si è ancora costituito psichicamente: è un puro “si strilla” impersonale, è un dolore non portato da nessuno. Senza la possibilità di gridare non si fonda quindi quella primordiale differenza a partire dalla quale può sorgere l’identità del soggetto (Lolli 2017, p. 95). La voragine che sta al posto del volto del soggetto dell’opera di Huyghe rimanda allora a questa impossibilità di prendere le distanze, di mettere un ordine simbolico capace di mediare tra l’interno e l’esterno, che così si fonde in una minaccia indifferenziata non modulata da una bocca in grado di articolare dei significanti che alternino vocali e consonanti.
Guardando la simulazione, che in tempo reale reagisce all’ambiente circostante tramite dei sensori, si ha la sensazione che i movimenti della donna sullo schermo siano un tentativo di rispondere al contesto, di elaborare un sapere per reagire a ciò che accade. Ma le informazioni sono caotiche: siamo noi spettatori con il nostro incessante entrare e uscire dalle sale del museo che nutriamo il flusso ininterrotto di dati che assillano la donna. Siamo noi, costantemente monitorati, a renderle impossibile l’apprendimento dall’esperienza. Ad un certo punto la vediamo rannicchiarsi a terra, nello sforzo disperato di riposare. Poco dopo è di nuovo in piedi: è di nuovo sollecitata, non c’è possibilità di sospensione. Senza la possibilità di dormire non c’è pensiero, luce, comprensione. La coscienza trova infatti la sua condizione nel fatto che «può iniziare o terminare in una testa, può accendersi o spegnersi, può sfuggire da se stessa: la testa ricade sulle spalle, si dorme» (Lévinas 2019, p. 62). È a partire dal sonno che si stabilisce quindi la più primordiale relazione con il luogo, innanzitutto vissuto in modo per nulla astratto come base, giaciglio, protezione. Nell’insonnia, al contrario, «è la notte stessa che veglia» (ivi, p. 60), è un brulichio di punti nell’oscurità a cui manca la prospettiva. Ma nell’opera di Huyghe l’opacità senza profondità della notte è appena rischiarata da una luce crepuscolare. Cosa è questo accenno di visibilità?
Impossibilitato a gridare, impossibilitato a dormire, questo soggetto immerso in una luce aurorale non può comunque essere ridotto ad animale o ad automa. Il linguaggio e il sonno sono certamente due operatori fondamentali di quella distanza che serve a costituire il mondo come oggetto per un soggetto e che, venendo a mancare, lo incollerebbero a una condizione anonima, asoggettiva. Ma se guardiamo i comportamenti della donna, essa sembra errare, vagare, soffrire di un qualcosa che non riesce a trovare. L’opera rende la peculiarità dell’attività umana nel suo esser condannata a esperire ogni cosa come distante, perfino suo stesso corpo. Al contrario dell’animale che è il suo corpo, la donna ha il suo corpo come (non) ha ogni cosa a partire da una lontananza che deve continuamente essere attraversata. L’essere umano è, secondo un’espressione di Franco Fregnani, un “essere delle lontananze”.
Il pathos di questa lontananza ha un’eco romantica nella vastità del paesaggio creato da Pierre Huyghe, ma è vissuta in modo per nulla eroico. La sfasatura tra il comportamento umano e quello automatico-istintuale è colta nel suo differenziarsi minimo. Questo soggetto che ci sta di fronte è appena umano, appena separato dalla continuità con il corpo e con l’ambiente, e il suo dramma sta in questa separazione minima e involuta. Ciò che è messo in scena è proprio la somma di imperfezioni, esitazioni e fallimenti che per Bergson sono ciò che differenzia l’uomo dall’animale e dall’automa (Leoni 2021, p. 125), e l’opera riesce a dimostrare ciò tramite una simulazione artificiale, tramite un automa. Questa separazione solo accennata è fortemente in tensione con un apparato fonatorio sfondato da una voragine che mette a repentaglio la differenza tra interno e esterno, aprendo un buco nero nel centro nevralgico del corpo.
Ma cosa ci ha condotto alla catastrofe rappresentata? Cosa è accaduto al mondo? E che ne è della postura trascendentale che ha caratterizzato lo sguardo dell’uomo da Kant in poi? A cosa è dovuta questa abiezione della posizione del soggetto? Proviamo a rispondere a queste domande dicendo che il correlativo classico del soggetto, ovvero il mondo, ha uno statuto oggi più che mai problematico. Rifacendoci a Timothy Morton potremmo dire che siamo entrati in un’epoca definita dall’imporci una relazione con iper-oggetti, cioè oggetti smisuratamente grandi rispetto alle nostre capacità e ai nostri modi di farne esperienza. L’impatto degli iperoggetti ha comportato la «fine del mondo» e inaugurato una fase di ipocrisia, debolezza e instabilità. L’archetipo dell’iperoggetto è per Morton indubbiamente il riscaldamento globale, «un problema enorme perché, assieme ai ghiacciai, ha dissolto i concetti di mondo e di mondeggiare» (Morton 2018, p. 136). Oggi un’ingenua e banale conversazione sul tempo metereologico non può non essere minacciata dalla netta sensazione che il tempo sia diventato “strano”. Da che il discorso sul tempo, infatti, si profilava come il fondale della commedia umana, esso è passato all’essere un problema invadente sotto forma di tornado o siccità. L’idea di Morton è quindi che il riscaldamento globale distrugga la possibilità di dare per scontato il rapporto figura/sfondo su cui si fonda anche la nostra esperienza più quotidiana e banale. Un orizzonte vuoto è tutto ciò che resta nell’opera di Huyghe, ultimo retaggio di un mondo in cui è diventato impossibile distinguere il primo piano dallo sfondo.
La sensazione di vivere alla “fine del mondo” non può essere però collegata solo alla questione del riscaldamento globale, e analizzando l’opera di Morton possiamo notare le estemporanee oscillazioni sulla questione. A partire da Iperoggetti, dove l’autore afferma che «forse anche le relazioni economiche sono degli iperoggetti» (ivi, p. 131), oppure che «il mondo scompare quando mi è possibile curiosare in qualunque punto a piacere, usando per esempio Googe Earth» (ivi, p. 137). Se diamo importanza a questi riferimenti diventa chiaro come sia possibile collegare l’esperienza della fine del mondo a una serie ben più ampia di fenomeni della contemporaneità. È quella sensazione di un «vuoto eccesso di semanticità» degli ambiti percettivi di cui parla De Martino, che porta ad un paradossale «difetto di semanticità, di progettabilità, di operabilità di questi stessi ambiti, che sono vissuti come “rigidi”, “artificiali”, “inerti”, “morti”, fuori d’ogni intenzionalità possibile» (De Martino 2019, pp. 275-276). Fuori di ogni intenzionalità possibile è il meccanismo che regola i rapporti tra l’ambiente della mostra a Punta della Dogana e la simulazione artificiale riprodotta sullo schermo. La bellezza e l’importanza dell’opera di Pierre Huyghe sta nel riuscire a mettere in scena l’estraneità e lo spaesamento come cifre della contemporaneità tramite un medium che incorpora nelle sue caratteristiche delle logiche che restano estranee all’umano. Far lavorare l’inconscio tecnologico diventa quindi un modo privilegiato per mostrare un mondo che la nostra coscienza non riesce più a penetrare. Quale postura assumere è la domanda che resta aperta.
Riferimenti bibliografici
E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino 2019.
F. Leoni, Henri Bergson: segni di vita, Feltrinelli, Milano 2021.
E. Lévinas, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Bologna 2019.
F. Lolli, Prima di essere io: il vivente, il linguaggio, la soggettivazione, Orthotes, Napoli-Salerno 2017.
T. Morton, Iperoggetti, Nero, Roma 2018.
Pierre Huyghe. Liminal, a cura di A. Stenne, Punta della Dogana, Venezia, 17 marzo 2024 − 24 novembre 2024.