Nei progetti iniziali, le cose non dovevano andare così. Vale per la 77. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica come per il film selezionato per la cerimonia di preapertura, il nuovo documentario di Andrea Segre. Originariamente concepito come una riflessione sulla crisi della città di Venezia, ha dovuto fermarsi o, quantomeno, virare il proprio percorso a causa del lockdown. Lo dice chiaramente il regista in una delle sequenze iniziali del film: «Avevo scritto un progetto per raccontare le due grandi tensioni della Venezia di oggi: il turismo e l’acqua alta. Il 22 Febbraio 2020 ero pronto per partire, ma non potevo immaginare che cosa stava per succedere. Tutti noi non potevamo immaginare ciò che stava per succederci».

Si spengono le luci, parte il Festival, inizia il film. La voce off di Segre che guida il racconto per immagini ci porta dapprima sulla rotta del progetto originario: vediamo i vaporetti veneziani pieni di turisti, la precarietà di una città sottoposta a sfruttamento intensivo e soggetta a variabili atmosferiche che ne minacciano la tenuta. Man mano che il racconto del regista prosegue, affiorano riferimenti autobiografici, soprattutto al padre: un fisico della materia di origini veneziane, prematuramente scomparso lasciando un vuoto difficilmente colmabile e una serie di domande alle quali trovare risposta da sé. Il pubblico e il privato, le immagini d’archivio e quelle del presente si accostano l’una all’altra. La cronaca di una città e la storia di una vita – o meglio di un rapporto tra padre e figlio – si intrecciano con intensità crescente.

Coerentemente al progetto di partenza, Segre ci fa conoscere i pescatori dell’isola delle Vignole e le loro posizioni “apocalittiche” e “bucoliche” sul futuro di Venezia. Andiamo sull’isola di Sant’Erasmo per comprendere il fenomeno della scomparsa delle barene, formazioni di suolo caratteristiche dell’ambiente lagunare. Si tratta di momenti del film nei quali la capacità di descrizione e d’incontro dello sguardo cinematografico si liberano in profondità di campo, richiamando alla memoria Robinson in Laguna (1985) di Mario Brenta.

Ma è soprattutto lungo i canali della città che prende corpo uno degli incontri più significativi del film. Quello con Elena Almansi, vogatrice, figlia di vogatori, che per continuare a vivere in Laguna si è messa a insegnare quegli antichi difficili gesti ai turisti che trascorrono poche ore in città e vogliono andarsene con il ricordo di un’esperienza autentica. Con lei e con altri gondolieri impariamo a “leggere i canali” e riflettere sulle trasformazioni in atto: il fatto che molti scalini d’accesso alle abitazioni sono ormai del tutto inutilizzabili poiché progettati in riferimento a escursioni di marea diverse da quelle odierne.

A un certo punto, la voce off inizia a fare riferimenti più insistenti, incalzanti, all’imminente lockdown. Tutte le immagini, tutte le dichiarazioni sentite finora saranno presto chiamate alla prova dell’isolamento, alla visione di una Venezia deserta. Ed è senza dubbio la passeggiata solitaria in gondola – in qualche modo prefigurata nell’incipit di Il pianeta in mare (2019), dedicato all’ambiente industriale di Porto Marghera – uno dei momenti più affascinanti del nuovo film. È qui, di fronte allo spettacolo di una città turistificata senza più turisti, che trova manifestazione il carattere spettrale della Serenissima. Inquadrate da dietro le spalle mentre si aggirano per i canali di una Venezia irriconoscibile, le vogatrici sembrano, per un attimo, prendersi paura della loro stessa città e di quella condizione tanto agognata: la liberazione da quanti, in massa, ogni giorno, ne abusano frugalmente. Tolto il problema – croce e delizia delle città d’arte – che cosa fare dei luoghi amati e quotidianamente abitati, come gestire i propri saperi, a chi proporli, a che cosa accostarli per garantirne l’uso e la manutenzione, per far scoccare l’alchimia della scintilla?

Se da subito la voce off del regista ci invitava a guardare le immagini con la consapevolezza di quanto sarebbe accaduto, d’ora in poi l’intero corso del film deve cambiare. Quasi come si trattasse di un film di Nanni Moretti – dove il fallimento del progetto iniziale è condizione necessaria per lo sviluppo del processo creativo e del racconto diegetico stesso –, la contingenza del Covid-19 costituisce un’impasse per il progetto dedicato ai problemi dell’overtourism e all’alta marea, ma lascia affiorare la trama complessa che caratterizza Molecole.

Per il regista, come per molti spettatori, la condizione di clausura forzata innesca un processo d’introspezione, non tanto inteso come ripiegamento individuale, ma come occasione per ripensare i nessi tra sfera politica e sfera personale. Essere chiusi in casa a Venezia così come in qualsiasi altra parte del mondo costringe a ripensare i rapporti tra il dentro e il fuori, tra ciò che riguarda se stessi o la propria famiglia e quanto di più vasto ha che fare con la vita sociale e biologica. Nei singoli fotogrammi del documentario sulla laguna di Venezia germoglia in questo modo un found footage film a carattere biografico e autobiografico. Rimontando fotografie, filmati e lettere riguardanti il ramo veneziano della famiglia, Andrea Segre prova a raccontare il rapporto con il padre Ulderico, fatto di affetto e parole non dette, un rapporto in qualche modo gravato dalla tacita consapevolezza della malattia cardiaca del genitore.

Il tema di ricerca scientifica del padre finisce così per instaurare il piano metaforico fondamentale dell’intero film, ciò che tiene insieme i diversi livelli del racconto e sostanzia il montaggio: la fisica molecolare come modello di riferimento per pensare le interazioni tra diverse forme di vita, tra ciò che è organico e ciò che è inorganico. Le molecole come custodi di segreti al contempo familiari e cosmici, chiave di lettura per evitare derive essenzializzanti e griglie normative (la Famiglia, la Città, la Campagna, la Cultura, la Natura…). Certo, in alcuni casi il racconto sembra dare luogo ad analogie tra ambiti distinti e distanti, assumendo toni marcatamente lirici, accentuati dalle intense composizioni musicali di Teho Teardo. Ma tenendoci lontani da posture critiche inutilmente giudicanti, è facile notare che la forza estetica di questo film risiede proprio nello strabordare di riferimenti eterogenei, nell’audacia di tenere insieme quanto di proprio e quanto di comune.

Come nelle riflessioni di quanti hanno contribuito al rinnovato del pensiero psicanalitico, Segre concepisce l’elaborazione di un trauma personale e familiare proiettandolo su larga scala, in chiave microfisica e geofilosofica. Per riprendere esplicitamente le parole di Deleuze e Guattari, è possibile affrontare la propria storia oppure la storia di una città ricorrendo a categorie interpretative prestabilite e tendenzialmente normative, oppure si può tentare di trascenderle, identificando e valorizzando l’assemblaggio di singolarità, l’incontro di molecole in continuo divenire:

nel primo caso, si considerano grandi insiemi molari, grandi macchine sociali – il campo economico, politico, ecc. […] Nel secondo caso, si oltrepassano questi grandi insiemi, ivi compresa la famiglia, verso gli elementi molecolari che formano i pezzi e i congegni di macchine desideranti. Si cerca come queste macchine desideranti funzionino, come investano e subdeterminino le macchine sociali ch’esse costituiscono su grande scala. Si toccano allora le regioni d’un inconscio produttivo, molecolare, micrologico o micropsichico, che non vuol più dir nulla e non rappresenta più nulla (Deleuze e Guattari 1975, p. 205).

Per questa via, mettersi sulle tracce del padre non significa chiudersi nelle private stanze o ricorrere a categorie interpretative prestabilite (come possono esserlo anche il “film di famiglia”, il “ritratto” o il “film biografico”), ma è necessario spalancare porte e finestre, intraprendere un viaggio, dare luogo ad assemblaggi e montaggi tra forme mediali, molecole sparse ed eterogenee. Capire in che senso e come un tratto comportamentale, un incontro mancato o la storia di un uomo possano essere in qualche modo interconnesse alla storia e al presente di una città, di una regione e di un territorio, come quello lagunare, caratterizzato da un forte carattere, riottoso eppure estremamente fragile. Di fronte ad accostamenti e assemblaggi tanto liberi qualcuno potrebbe parlare di serendipità, ma è forse più corretto ipotizzare il metodo di una “geofilosofia delle relazioni”.

Doveva essere un’inchiesta sul fenomeno turistico nelle città d’arte, potrebbe essere una cronaca dei giorni di lockdown oppure un racconto familiare, ma Molecole assomiglia soprattutto alla pagina di un blocco note piena di scritte e immagini varie, nella quale il regista ha cercato di fissare un’idea: che oggi più che mai fare un film a tema politico significa assumere consapevolezza della radicalità di tale categoria. Riconoscere l’importanza delle parti piccole e passeggere della vita biologica, psicologica e sociale che, aggregandosi, formano mondi, creano problemi, offrono interpretazioni, distruggono e costruiscono famiglie, territori, città…

https://youtu.be/yvg8nlVfaD8

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino 1975.

Molecole. Regia: Andrea Segre; sceneggiatura: Andrea Segre; musica: Teho Teardo; interpreti: Gigi Divari, Elena Almansi, Maurizio Calligaro, Giulia Tagliapietra, Patrizia Zanella; produzione: ZaLab Film con Rai Cinema, in associazione con Vulcano e Istituto Luce Cinecittà, in collaborazione con Teatro Stabile del Veneto Carlo Goldoni; distribuzione: ZaLab Film origine: Italia; durata: 71’.

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