Shakespeare-Melville-Welles che cosa hanno in comune? Che cosa ha portato Welles nel 1955 ad operare una riduzione teatrale del romanzo melvilliano nella quale una compagnia che sta provando Re Lear passa alle prove di Moby Dick?

In Moby Dick. Prove per un dramma in due atti, Orson Welles fa dire al personaggio del “giovane attore” qualcosa su ciò che lega il “Lear” al romanzo di Melville: ‭«La balena bianca è come la tempesta nel “Lear”: è reale, anzi è più che reale, è una chimera della mente» (2018, p. 24).

Che cos’è questo più che reale, che è anche un più di reale, il quale sfidando ogni verosimiglianza fa precipitare il soggetto, dissolvendo i cardini del tempo e l’ordine del mondo? Che cosa è questa chimera della mente che il soggetto sente più che reale anche se lo fa precipitare nella distruzione di sé stesso e del mondo?

Queste domande attraversano la bella messa in scena di Elio De Capitani del testo di Orson Welles, Moby Dick alla prova, vista al Teatro Vascello di Roma.

Le risposte che vengono date investono il senso stesso dello spettacolo, nel quale vediamo De Capitani interpretare più ruoli, come accadeva a Welles nella prima messa in scena dello spettacolo nel 1955 a Londra, oltre ad Achab, padre Mapple, l’impresario teatrale e Re Lear.

I personaggi diventano altrettante maschere di processi di divenire in cui prendono corpo nell’azione, attraverso attori e macchine sceniche, le chimere della mente.

Va detto con chiarezza, tali chimere della mente non sono turbative impreviste del sogno americano, ma le sue pieghe interne. L’American Dream non è mai stato esclusivamente l’incarnazione solare della polarità positiva del mito, con il viaggio verso Ovest per immaginare nuovi inizi, l’infinità della terra da attraversare, un melting pot da costruire. Insieme alla potenza creativa e generativa dell’azione, l’America ha raccontato il suo stallo, la sua deviazione per effetto di “atti” ossessivi e violenti, che rendono impossibile aprire il futuro.

Fin dall’inizio, insieme al sogno americano c’è stato l’incubo; insieme alla solarità di un tempo futuro c’è stata la traccia traumatica di un passato incancellabile, che porta l’azione a ripetere ossessivamente sé stessa, o anche a sospendersi, come nella formula di Bartleby “I would prefer not to”. I grandi personaggi letterari americani hanno raccontato – come ci ha detto Deleuze – il divenire americano come fuga e deriva; la piega interna, non cancellabile, del grande sogno ad occhi aperti, il fantasma che abita dall’interno le illusioni necessarie per nuove e continue fondazioni.

Melville è stato uno dei massimi cantori di questa America. E Achab il suo personaggio più grande, catturato da un daimon infernale che non lo ha lasciato libero, lo ha trascinato verso la fine.

Tutti i grandi romanzi di Melville sono sempre costruiti intorno a un ‭«personaggio originale» a cui si subordina la storia, l’intreccio: da Pierre a Benito Cereno a Billy Budd. Questo personaggio originale diventa una ‭«lampada Drummond girevole» (Melville 1984, p. 244) che illumina tutto intorno, orienta il romanzo verso il tratto simbolico del romance, trasformando il personaggio in un ethos non più padrone di sé stesso. Un tale personaggio assume di fatto i tratti del personaggio tragico. Ma non si tratta del tragico antico, in cui il personaggio è segnato da un daimon che lo conduce ad attuare inconsapevolmente un destino che lo sopravanza da tutte le parti, come per Edipo. Qui si tratta del tragico moderno – e dunque di Shakespeare – con al centro le aporie della volontà. Qui il soggetto, trascinato da una «forza che lo eccede» (Harold Bloom), è agito da una volontà forte, ma non libera. In questo, tutti i grandi personaggi wellesiani sono eredi di questa tradizione, in cui la forza attraversa inarrestabile il personaggio e lo conduce alla fine: Kane, Quinlan e Arkadin sono gli eredi prosaici novecenteschi di Lear ed Achab.

Elio De Capitani traduce tutto questo nello spettacolo con una felice intuizione: togliere il blu del mare e il calore del legno della nave, restituendo sulla scena il mondo attraverso il grigio di una materia metallica, e di un grande telo di fondo che muovendosi simbolizza l’immensa forza di un fantasma gelido e meccanico che ossessiona e trascina l’umano. Insieme a questo, le musiche dal vivo e la ritmica del canto della ciurma scandiscono l’azione nel suo incedere inesorabile, come il vogare delle tre barche all’inseguimento di Moby Dick, rappresentato con il movimento ritmico delle braccia dei marinai su sei carrelli di metallo.

Achab è restituito, nella sua posizione di comando, segnato da una rabbia illimitata e da un odio costitutivo. “In nome dell’odio ti sputo in faccia il mio ultimo respiro!”, dirà arpionando al cuore la balena seguendola aggrappato nelle profondità dell’oceano. Ma il suo odio resta, nello spettacolo, un elemento del tutto umano. Un umano impotente, incapace di plasmare metamorficamente la realtà, segnato da quel più di reale che sovrasta il personaggio da ogni parte; senza che lo faccia uscire però dalle possibilità dell’umano, che arrivano fino al punto demonico di prevedere l’esautorazione dell’umano stesso.

Qui c’è un punto chiave, che riguarda Shakespeare, Melville, Welles, ed ogni nuova opera che con tutto questo prova a misurarsi. Quella forza che trascina Achab, quel daimon che lo possiede è dello stesso genere di ciò che attraversa l’attore, il regista, l’artista. È questa la malia segreta di tali personaggi. Soltanto che l’artista è capace di convertire quel più di reale nella potenza metamorfica della forma, è capace di comporre le forze, rispondendo creativamente al suo proprio daimon.

L’ossesso e l’artista fanno parte della stessa linea, ma con la differenza capitale che l’artista agisce in nome della vita, dell’amore e della generosità, senza le quali la creazione non sarebbe possibile. Per questo tra i grandi personaggi shakespeariani, Welles preferiva non i re e i potenti, ma il buontempone Falstaff, capace di ribaltare comicamente l’odio in amore, la morte in vita. E i suoi ultimi film non hanno avuto più bisogno di geni del male, ma di maghi – F for Fake – o di creatori, in cui Welles ha interpretato sé stesso, l’artista: Filming Otello, The Other Side of the Wind.

Per questo, quello che ci dice e ci ricorda lo spettacolo di Elio De Capitani, è che per un soggetto e per una intera nazione non c’è altro compito che convertire l’inevitabile più di reale della vita nella fonte inesauribile della creazione, sottraendolo all’inesorabilità della distruzione e della morte.

Riferimenti bibliografici
H. Melville, L’uomo di fiducia, Feltrinelli, Milano 1984.
O. Welles, Moby Dick. Prove per un dramma in due atti, Italo Svevo Editore, Trieste 2018.

Moby Dick alla prova. Di: Orson Welles; testo: Herman Melville; traduzione: Cristina Viti; spettacolo di: Elio De Capitani; costumi: Ferdinando Bruni; musiche: Mario Arcari; direzione del coro: Francesca Breschi; maschere: Marco Bonadei; luci: Michele Ceglia; suono: Gianfranco Turco; interpreti: Elio De Capitani, Cristina Crippa, Angelo Di Genio, Marco Bonadei, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Massimo Somaglino, Michele Costabile, Giulia Viana, Vincenzo Zampa, Mario Arcari; produzione: Teatro dell’Elfo e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale; durata: 140′; anno: 2025.

*foto di Marcella Foccardi.

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