Se c’è un elemento che accomuna i film di Todd Haynes, le sue tante riletture dei generi dell’eccesso – dal melodramma al musical al fantastico – è che in ognuno di questi generi si cela una possibilità di manipolazione delle forme, di costruzione del racconto in cui ogni elemento diventa o può diventare altro da ciò che rappresenta. Haynes non è mai stato interessato alla trasparenza della visione, anzi. Tutto il suo cinema si caratterizza in fondo come una sorta di fenomenologia del nascondimento, della velatura, dell’artificio. Cosa significa questa espressione? Semplicemente che le forme del racconto e le pratiche della visione del regista statunitense mostrano sempre in azione diverse forme di maschera, di nascondimento, di velamento del desiderio, dello sguardo, della volontà.

Sono i maquillage e i trucchi glam pesanti di Velvet Goldmine, i tanti volti/corpi di Bob Dylan in Io non sono qui, i desideri nascosti e proibiti di Lontano dal paradiso o di Carol; i giochi e le simulazioni di The Karen Carpenter Story (con le sue bambole al posto degli attori) o i diorami de La stanza delle meraviglie. Ecco, ognuno di questi elementi contribuisce a costruire quella complessa macchina del falso, dell’artificio, della velatura e della maschera che diventa quasi l’ossessione primaria di Haynes. Tutto nei suoi film è determinato da giochi e livelli diversi di messa in scena, di falsità, di menzogna, soprattutto di copertura del vero; intendendo il vero non come concetto, come elemento cognitivo, ma come desiderio, come pulsione. Veri sono i movimenti dell’animo, i desideri, che i personaggi di Haynes spesso sublimano, trasformano, negano. L’arte del nascondimento è anche nel gesto trasformista che spesso determina il cinema del regista americano; un gesto mimetico, che consiste nell’assumere sottilmente le forme di altri autori, di imitarne lo stile in tutto o in parte. Gesto camaleontico che diventa dichiarazione di poetica in Io non sono qui (quasi un campionario di stili di regia), e che in May December raggiunge un ulteriore livello.

Come ogni ossessione, quella del nascondimento è anche per il regista una forma di fascinazione, il velo è una figura dell’immagine e come tale colpisce ed affascina. In May December esso infatti assume diverse forme, si manifesta in diversi modi, ed ognuno di essi contribuisce a creare la forma finale del racconto, che altro non è se non una storia di vampiri. Ma andiamo per gradi. May December si ispira, come si sa, ad una storia vera (questa frase è in fondo un’altra espressione del nascondimento, tipicamente hollywoodiana): la storia di una donna sposata che si innamora, ricambiata, di un minorenne. Nel film i due abitano in una piccola cittadina, hanno dei figli, sembrano perfettamente integrati nella comunità locale. La narrazione si apre sulla preparazione di un tipico rituale della Gemeinschaft di provincia statunitense, il barbecue in giardino. La casa dove la famiglia Atherton-Yoo vive è bella, grande, caratterizzata da ampie finestre che spesso corrono lungo le pareti, garantendo luce, trasparenza.

Ed è proprio questa una delle forme tipiche del nascondimento secondo Haynes, la luce e la trasparenza. Il film è una teoria dei riflessi e della luce. I personaggi sono spesso inquadrati attraverso i loro riflessi sugli specchi, o con grandi finestre alle spalle, o attraverso vetri o superfici trasparenti. La trasparenza e il riflesso, lungi dal garantire il regime della verità, lo nasconde nel modo più consono, cioè esponendolo. La fotografia di Christopher Blauvelt avvolge il film in una patina costante, in cui i volti, per quanto illuminati, sembrano sempre coperti da un sottile velo, da una patina di oscurità. La regia di Haynes mette in scena una sorta di composizione dei corpi nello spazio, in modo da evidenziare distanze, spazi oscuri, parallelismi.

Ecco, ancora, il parallelo, il doppio che si evidenzia attraverso il vampiro nascosto che succhia l’apparenza della vita felice della protagonista. Il vampiro è Elizabeth, l’attrice famosa (Natalie Portman) che dovrà interpretare il ruolo di Gracie Atherton-Yoo (Julianne Moore) in un film indipendente che racconterà la sua storia. Natalie Portman passa dunque del tempo insieme alla famiglia, parla con amici, parenti, con l’ex marito di Gracie, il suo precedente datore di lavoro, il suo avvocato; visita i luoghi dove si è svolta la relazione clandestina e inizia gradualmente ad immedesimarsi o meglio, a trasformarsi in Gracie, truccandosi come lei, muovendosi come lei, “sentendo” ciò che lei ha sentito. Elizabeth si trasforma in Gracie, si sostituisce a lei, ne carpisce lo spirito vitale. È un gesto vampirico dunque, di quel vampiro nascosto che è (o può essere) il cinema quando appunto “si ispira ad una storia vera”, inventa il mito della verità, che passa qui per un procedimento di assorbimento e sostituzione.

Ma assorbimento di cosa? Ciò che Gracie rivela, nel gioco delle trasparenze e dei riflessi velati, dei doppi che ripetono i gesti passati, è il suo vivere nella finzione più totale, nell’illusione della felicità. La comunità-Gemeinschaft dei Savannah è di fatto la grande messa in scena della felicità come finzione, menzogna. Assorbendo la sua forza vitale, l’attrice-vampiro rivela la sottile patina del nascondimento che attraversa e caratterizza tutto il film. La trasparenza e la luce sono dunque miti consolatori, falsi proprio in quanto sembrano presentarsi come ciò che rivela attraverso la luce, fenomenologia del vero.

Haynes però ama la maschera, ne è affascinato, come si è detto. Ed ecco allora, nel processo di sostituzione/trasformazione che Elizabeth porta avanti lungo il film, che i dettagli e le forme del velamento si moltiplicano: Elizabeth e l’adesso marito e prima amante di Gracie, Joe, che hanno la stessa età, 36 anni; i figli gemelli della coppia, il continuo raddoppiamento delle due protagoniste davanti agli specchi (mentre assistono alle prove del vestito della figlia di Gracie, o mentre Gracie trucca Elizabeth per farla somigliare a lei). Dall’altra parte, Joe, il marito-bambino, solare e sollecito, è spesso inquadrato con elementi che coprono l’inquadratura, che gettano su di essa un’ombra, uno spazio oscuro. Il suo sguardo sembra andare oltre quella patina di tranquillità che diffonde intorno a sé, per rivelare una sorta di malinconia, di sofferenza profonda. Le maschere del volto, gli sguardi che alludono o che sospendono l’apparente tranquillità di un personaggio diventano la norma nel film, spesso accentuati, come sottolineati da brevi passaggi musicali dalla colonna sonora. Sono accenti improvvisi, che sospendono l’apparente trasparenza del film.

Tutti gli elementi dispiegati dal film sono di fatto una ulteriore dichiarazione di poetica del cinema da parte di Haynes, che non cessa di mettere a punto questa dimensione metanarrativa in ogni suo film. Ogni immagine è una maschera, essa nasconde e non rivela o, meglio essa rivela il proprio essere maschera. In questo mondo, i vampiri sono gli esseri (o i dispositivi, come la macchina-cinema) che si nutrono di questi veli per replicarli essi stessi. Da questo punto di vista è questa l’ambiguità a cui da sempre il cinema del regista va incontro: se la maschera è ovunque, allora la realtà stessa non è che velamento e, proprio per questo diventa seducente, affascinante, proprio per il continuo gioco che produce e riproduce. In Haynes non esiste un cinema del reale che non sia fatto di maschere, inganni e velamenti. Supremo inganno, ma anche, appunto, seduzione dell’immagine stessa, di cui il regista è ancora perdutamente innamorato.

May December. Regia: Todd Haynes; sceneggiatura: Samy Burch; fotografia: Christopher Blauvelt; montaggio: Affonso Gonçalves; interpreti: Natalie Portman, Julianne Moore, Charles Melton, Cory Michael Smith, Elizabeth Yu, Gabriel Chung, Piper Curda, D. W. Moffett, Lawrence Arancio; produzione: MountainA, Gloria Sanchez Productions, Killer Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Stati Uniti d’America, Italia; durata: 113′; anno: 2023.

Share