wonderstruck

Esiste un cinema barocco? Ovvio, si dirà; ma cosa significa esattamente questa affermazione? Senza soffermarsi su un primo significato, il più ricorrente, dell’aggettivo “barocco” (nel linguaggio comune: sofisticato, arzigogolato, legato ad una ipertrofia di dettagli e ridondanze stilistiche), il senso di un cinema barocco, o di uno sguardo barocco sta in realtà nella capacità di fare del cinema una macchina produttrice di molteplicità. Il molteplice è letteralmente ciò che ha molte pieghe, ripeteva Deleuze nel suo saggio su Leibniz, e il Barocco produce di continuo pieghe. Un cinema barocco, in questa prospettiva, è allora un cinema che non cessa di produrre molteplicità, raddoppiamenti, ritorni, ripetizioni, piegamenti dello spazio e del tempo.

Movimento affascinante e pericoloso, perché spesso tali elementi appartengono ad un cinema iperstilizzato, innamorato della pura forma, autoreferenziale. Ma come ogni zona di confine, anche questa definizione, proprio perché fluida, affascina, si rivela ricca di potenzialità. Può essere anche un gioco divertente quello di rintracciare, all’interno della storia del cinema, le forme barocche che lo hanno attraversato: ed ecco palesarsi alla memoria gli spazi-tempi incompossibili de L’anno scorso a Marienbad  (1961) di Alain Resnais o la vita che scorre al contrario in Il curioso caso di Benjamin Button (2009) di David Fincher, o ancora il Francis Ford Coppola di Un’altra giovinezza (2007), fino ad arrivare a David Lynch, ovviamente. Film che piegano le leggi lineari del tempo e dello spazio, costruendo piani paralleli, montaggi di spazi e tempi, inversioni della freccia del tempo. Il gioco potrebbe continuare, ma più ci si addentra lungo questa altra-storia del cinema, più ci si rende conto che la piega che caratterizza il movimento barocco è una piega spaziale e temporale insieme. La molteplicità che il cinema elabora riguarda infatti sia la molteplicità dei tempi che degli spazi, il desiderio di invertire la direzione del tempo e la posizione dello spazio.

È lungo questa linea che si muove da sempre il cinema di Todd Haynes, forse uno dei maggiori rappresentanti dell’immagine barocca nel cinema contemporaneo. Cineasta del doppio, della molteplicità, della rottura del tempo lineare – il cinema come ricalco di se stesso in Lontano dal paradiso (2002), al tempo stesso copia e variazione chirurgica di Secondo amore (1955) di Douglas Sirk; l’immagine artificiale come rifacimento ironico della vita in The Karen Carpenter Story (Carpenter, Sargent, 1989), realizzato con le bambole della linea Barbie; il corpo come moltiplicazione potenzialmente infinita delle identità in Io non sono qui (2007), dove sette attori interpretano Bob Dylan in un vorticoso e folle montaggio alternato; infine l’immagine e il travestimento come possibilità di creazione di identità mutanti e tragiche in Velvet Goldmine (1999) – Haynes realizza in Wonderstruck (titolo italiano, La stanza delle meraviglie), quasi un manifesto: la rappresentazione poetica di un modo di pensare e sentire il cinema come “apparato produttore di tempo” (è una delle definizioni del cinema secondo Gianfranco Bettetini) e come lavoro sugli spazi molteplici.

Tutto il film ruota in effetti intorno a degli spazi produttori di immagini e di desideri. New York diventa, per la dodicenne Rose nel 1927, e per il dodicenne Ben nel 1977 – entrambi non udenti e entrambi profondamente soli – il luogo dove incontrare altri luoghi, spazi dove sono nascoste stanze, saloni, soffitte, soppalchi: luoghi nascosti, ricchi di immagini ed oggetti attraverso i quali scoprire il mondo.

Il movimento duplice del film alterna il bianco e nero del 1927 ai colori saturi e seppia del 1977, in un continuo montaggio alternato in cui a volte, letteralmente, i due personaggi che vivono in due momenti diversi del tempo, si ritrovano letteralmente «nello stesso luogo», guarda caso un museo (quello di scienze naturali di New York, luogo magico che sembra quasi ironicamente evocare la trilogia di Una notte al museo di Shawn Levy). Tutti gli spazi importanti del film sono infatti spazi-museo, luoghi carichi cioè di immagini temporali, che siano le stanze dove vivono (o si rifugiano) i due bambini (tre, se ci mettiamo anche Jamie, che Ben incontra nella sua fuga a New York), o che siano i musei dove scoprono nuove immagini (il diorama dei lupi al museo di storia naturale o il modellino-labirinto di New York nascosto nel museo d’arte del Queens) o ancora le sale cinematografiche dove Rose ammira la madre, famosa attrice del muto.

Forse uno dei segni tipici del barocco, anche se le sue origini affondano nel Cinquecento, è proprio la «camera delle meraviglie» (Wunderkammer), quello spazio privato, una sorta di piccola collezione o museo dove venivano raccolti oggetti meravigliosi, rari, bizzarri. Ognuna di questa camere, o bauli, o piccoli spazi nascosti era dunque il contenitore di un mondo. Ed è tipicamente barocco allora, pensare gli spazi come contenitori di altri spazi, luoghi solo in apparenza chiusi, in cui tutto ciò che è dato da vedere, ricorda ancora Deleuze nel suo saggio sul Barocco, si trova al di dentro.

Ecco, questo è il movimento barocco del film. La sua capacità di costruire o scoprire, attraverso questo alternarsi di tempi diversi, sempre nuove stanze. Ognuno di questi spazi nel film è una Wunderkammer, una stanza delle meraviglie appunto, dove ritrovare la propria capacità di essere wonderstruck – paralizzati dalla meraviglia di fronte ad oggetti particolari, fuori dall’ordinario, carichi di tempo e di memoria, evocatori di altri mondi e di altri tempi. Non è difficile vedere in tutto questo una precisa idea di cinema, che in fondo ha sempre attraversato il cinema di Haynes: l’idea del cinema come produttore di tempo sì, ma anche per questo evocatore di meraviglia; il cinema come luogo del fantastico, certo, ma proprio per questo anche come possibilità di vivere o rivivere altri tempi. Non è in fondo questo che racconta La donna che visse due volte (1959) di Hitchcock, uno dei più grandi film barocchi di tutti i tempi? Che cosa vuole Scotty quando grida disperato a Judy – che non vuole essere il doppio, la simulazione dell’amata (e perduta) Madeleine: “Tu sei la mia seconda possibilità!”? Egli vuole semplicemente questo: il desiderio che il cinema, contro tutto e contro tutti, gli (ci) dia una seconda possibilità di ritrovare ciò che è perduto in una visione lineare e irreversibile del tempo e dello spazio.

Le immagini sono al tempo stesso allora, per Rose come per Ben, luoghi della memoria e luoghi della scoperta di un nuovo mondo e tempo possibili; il viaggio che entrambi compiono non è solo un viaggio verso un luogo fisico preciso (New York), è un viaggio alla ricerca del potere delle immagini, delle tante immagini che serbiamo nella nostra memoria, che formano appunto quella Wunderkammer mutante e fluida del nostro immaginario. La forma barocca del film – la sua struttura fatta di sovrapposizioni temporali di connessioni paradossali, di linee che si biforcano e si sovrappongono – diventa allora la modalità con cui Haynes disegna i movimenti dello sguardo e del desiderio, fa precipitare tutti, personaggi e spettatori in una vertigine di sovrapposizioni e slittamenti.

Certo non c’è qui la follia moltiplicatrice dei corpi di Io non sono qui (2007) “ispirato dalla musica e dalle tante vite di Bob Dylan”, come si legge nei titoli di testa; e neanche vi si ritrova l’ipertrofia queer del mondo rock di Velvet Goldmine, ma la vertigine del film è comunque assicurata da un ossessivo sovrapporsi di nuove immagini e di nuove «camere» delle meraviglie, man mano che Rose e Ben, anche senza ascoltare il mondo, imparano a sentirlo (e a meravigliarsene) attraverso le pure immagini.

Riferimenti bibliografici
G. Bettetini, Tempo del senso: la logica temporale dei testi audiovisivi, Bompiani, Milano 2000.
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Baracco, Einaudi, Torino 2004.

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