Quando nel 1822 Louis Daguerre (l’alchimista della luce che fu alle origini della fotografia, con il suo dagherrotipo) apre, con Bouton, a Parigi il primo “diorama” il pubblico era posto in un ambiente immersivo, circondato dalle trasformazioni continue di immagini e variazioni di luce, approdando a una nuova forma spettacolare, posta a una distanza ravvicinata tra teatro e cinema
Mi sono tornate in mente le radici moderne di una percezione spettacolare tra fotografia, teatro, cinema (e arti visive e melodramma) con l’immergermi nell’ambiente-mostra a cura di Gianluca Riccio, 1977-2018 Mario Martone Museo Madre (fino a settembre al Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli), che compendia e rilancia più di 40 anni di lavoro del regista, il farsi di un’arte. A ben ragione Massimo Fusillo ha avvicinato il lavoro di Martone allo spostamento progressivo dei linguaggi proprio del Gesamtkunstwerk, l’Opera d’Arte Totale), al dispositivo-macchina celibe che è alla base delle Avanguardie del ‘900, del “precinema”, del melodramma wagneriano e anche delle utopie concrete di ogni post-spettacolarità, anche tecnologica e virtuale. «Da Baudelaire in poi la città è stata lo scenario privilegiato per un’interazione fra percezioni, sensi e linguaggi, secondo il modello della flânerie che oggi ritorna declinata in chiave virtuale, come cyberflânerie (e d’altronde la rete offre nuove prospettive per la sintesi fra le arti)». (Fusillo 2013, p. 27). E di una vera e propria installazione filmica si tratta nel caso di questa mostra, che si amplifica attribuendo allo spettatore, alla forma-comunità un ruolo essenziale.
È proprio l’attitudine al “viaggio da fermi”, a una “viandanza-veggenza” dell’occhio collettivo ciò che Martone mette in campo, da un lato risalendo alle forme percettive del moderno, alla disseminazione dello sguardo sollecitato dello spettatore-attore-flâneur che Benjamin individuò per primo, dall’altro risalendo la corrente anacronica di un lavoro teatrale, video e filmico, nel tempo e nello spaziotempo. Appare allora chiara la connessione di un tragitto che parte dai primi spettacoli-performance di Martone, e di Falso Movimento, dove l’uso degli screens e lo sfondamento scenico che assimilava le proiezioni e i corpi dinamici degli attori, attraversa, nella fase Teatri Uniti e poi nelle regie per il Teatro di Roma, le radici comunitarie di uno spazio tragico agito nella mistericità dell’iter esperienziale dello spettatore insieme alle figure del mito immerse nell’attuale anacronico (come nel bunker rovesciato dei Sette contro Tebe o nei teatri sventrati o diffusi con la forma dello stationendrama in Edipo Re e Edipo a Colono), affonda in una pratica cinematografica che prende a epitome da un lato una città parallela come Napoli, e il rapporto singolarità-pluralità e individuo-comunità, dall’altro una genealogia italiana che traspone un polittico “ottocentesco” (legato al melodramma, e alla rivoluzione mancata del Risorgimento, come al rapporto natura-storia in Leopardi) direttamente nell’orizzonte dei suoi molteplici echi contemporanei. E, ancora, rilegge l’opera lirica come un dispositivo di diffrazione, uno specchio, delle tensioni immanenti tra musica, scena e pubblico.
Tutto ciò nella mostra di Napoli ritorna in immagine certo, nella forma di un flusso continuo (un film plurimo e diffratto di 9 ore) disposto su quattro pareti-schermo lungo cui riemergono, appunto in un Diorama (o Cosmorama, Rundhorizont), le direzioni plurime e le connessioni tra le opere, ridisponendo l’opera singola in un processo, come fosse una operazione alchemica di soluzione dei nessi per ricomporli in un tessuto nuovo da cui emerge una sorta di meta-opera, secondo l’ opus tra fiamma e cenere di cui parla Benjamin a proposito del rapporto critica-opera all’inizio del saggio sulle Affinità elettive goethiane. Eppure questo ritorno assume una forma circolare: gli spettatori siedono al centro della sala buia su sedili rotanti e, muniti di cuffie, possono dislocare lo sguardo operando un “montaggio del montaggio”. Questa scelta è significativa: risale all’idea di spazio di uno spettacolo-chiave di Martone e Teatri Uniti del 1986 Ritorno ad Alphaville, dove il pubblico viveva l’avventura di un viaggio di ritorno alla città utopica alphavilliana di Godard in una nuova drammaturgia, posti al centro dello spazio su sedie mobili e circondati da palcoscenici che apparivano come altrettanti squarci schermici, finestre spaziotemporali. E in quel caso era proprio a un procedimento di montaggio sintomatico che si richiamava Martone: un ritorno sulle immagini e le visioni, una re-visione che assumeva il senso iniziatico di una circolarità ascendente, scaturendo come da una proiezione che partiva dalla stessa percezione psicofisica degli spettatori.
Ora, in questo lavoro-compendio assistiamo a un ritorno-sviluppo di quella forma da cui prende sostanza il senso di un lavoro che, mentre risponde all’arte di una singolarità ne rivela il senso profondo di un’arte comunitaria del vivere e cooperare al farsi dell’opera ( in questo modo si potrebbe definire più che una “personale” una “impersonale” affidata totalmente al decostruire-ricostruire la potenza collettiva dei lavori). In più emergono i nessi formali e sostanziali in un montaggio analogico operato da Martone sulle immagini depositatesi nel tempo (e, con Pasquale Mari, sul suo dato luminoso, in cui la luce e il colore sono come assorbiti in una oscurità amniotica e sprigionati, come incarnati, nello spazio). Nessi che fanno sì che, ad esempio, dagli schermi inscritti negli schermi, dalle strutture mobili di schegge di luci o di scenari allucinatori (sia in spettacoli come Otello o Tango Glaciale) si venga riproiettati nei grandi specchi che riflettono gli spettatori sulla scena degli allestimenti di opere come The Bassaridis di Henze o Ballo in maschera di Verdi o nelle aperture-chiusure o arretramenti di sipari rossi di Rasoi o di Morte di Danton, oppure trasposti nell’incedere comunitario della Napoli dell’ultima parte de Il giovane favoloso o del Viaggio in Italia, andata-ritorno dentro le illusioni perdute, di Noi credevamo.
Ma emblematico è anche il fatto che questo lavoro si realizzi alla vigilia dell’uscita del nuovo film di Martone Capri-Batterie, che risale all’epifania del secolo moderno, allo stato nascente delle comunità utopiche fertili per le future avanguardie (la Capri degli anni ’10, di Gorki, Lenin, Diefenbach, dei futuristi) e all’anacronia altrettanto generativa delle comunità contadine e pastorali che racchiudevano la vita stessa del mito. Non è un caso se il titolo del nuovo film rimandi a un’opera “sciamanica” di Joseph Beuys (donata a Lucio Amelio e da questi a Martone) realizzata al tramonto di quel secolo breve da un artista che dell’opera totale, e dei suoi tratti alchemico-utopici destinati a una nuova comunità “a venire”, ha fatto il centro segreto.
Perciò alla mostra fa da introito, da vestibolo templare una grande stanza al cui fondo, a parete, appare il grande pannello fotografico (foto di Mario Spada) di un bosco di tronchi d’albero (arbor misterico che attende di essere rivitalizzato) dove, sospesa su un lungo ramo, bilica una arcana e antica anfora di terracotta, mentre al centro della sala una quantità di quelle anfore (come sopravvivenze dal tempo che ritornano in vita) sono disposte nei contenitori lignei degli archeologi. Se, come diceva Freud, la psicoanalisi assume il procedimento dell’archeologia, e il riemergere dei contenuti mnestici opera un nachleben (direbbe Warburg), una reviviscenza, qui si tratta appunto di un mondo che riemerge e riprende vita.
Alla metà del 700, nel castello di Schwetzingen, risale una sorta di installazione architettonico-spettacolare ante litteram, Das Ende der Welt (La fine del mondo): «Una sequenza di archi in prospettiva conduce lo sguardo attraverso uno spazio che si restringe, a cui viene annesso un vano ampio, ovale, che sfocia, oltre una grotta, in un’apertura luminosa, la “fine del mondo”, un paesaggio fantastico. L’effetto viene raggiunto dipingendo l’immagine di un paesaggio su di una parete intonacata, che si trova in forma di prospetto circolare, distaccata, dietro l’apertura» (Grazioli 2008,p. 108). Il lavoro di Martone, il “diorama di un arte”, è anche l’apertura fantastica di un paesaggio collettivo di cui artefice si fa una intera comunità, e il cui titolo ha la forma di un’onda, di un flusso continuo (MMMM). Si tratta di un viaggio di ritorno alla “fine del mondo” che è anche, come diceva De Oliveira nel titolo del suo film più autobiografico, un viaggio all’inizio del mondo.
Riferimenti bibliografici
M. Fusillo, «Spostamenti progressivi dei linguaggi». Martone e l’opera d’arte totale, in Mario Martone. La scena e lo schermo, a cura di R. De Gaetano e B. Roberti Donzelli, Roma 2013, pp. 23-37.
C. Grazioli Luce e ombra. Storia, teorie e pratiche dell’illuminazione teatrale, Laterza, Roma-Bari, 2008.
E. Taramelli Louis Daguerre. L’alchimista che fermò il tempo, Diabasis, Parma, 2018.