Hydra, anni sessanta, due giovani si incontrano. Lui un malinconico poeta canadese, lei una bella modella norvegese. Un incontro d’amore in una comunità internazionale di artisti che si ritrova in una isola greca a vivere liberamente. Lui è Leonard Cohen, lei Marianne Ihlen. La loro storia d’amore assumerà contrassegni mitici che ne faranno una delle grandi storie che dal Novecento arriveranno fino ad oggi, come ci racconta il bel film di Nick Broomfield, Marianne & Leonard – Parole d’amore. L’amore si nutre di immaginario, anche se di questo rischia di diventare prigioniero. Cosa c’è veramente in gioco nella storia d’amore di Marianne e Leonard? Che cosa di questa storia resta e assume tratti mitici?
C’è l’isola certo, il mare, la Grecia, l’arte e la musica, quasi uno stato edenico della natura, dove i segni della civiltà sono ancora incerti (senza corrente elettrica stabile, ma con “oil lamps and candles”), ma soprattutto dove c’è libertà nelle relazioni. La vita, evitando ogni striatura definitiva, per esempio la coppia stabile, diventa orizzonte di possibilità molteplici. Marianne ha un figlio, il padre e marito è uno scrittore con cui si lascerà incontrando Cohen. E Cohen non le sarà fedele fin dall’inizio, ma allo stesso tempo lo sarà fino alla fine. Quando a pochi mesi di distanza, nel 2016, moriranno entrambi, le scriverà: “I’ve always loved you for your beauty and your wisdom. […] Endless love, see you down the road”.
La fluidità nei rapporti in una comunità bohémienne era in primo luogo disponibilità agli incontri, desiderio di fare della vita un’avventura ricca di possibilità, attraversando i rischi della felicità e la certezza del dolore, per non rinunciare all’esperienza del mondo: “The precious ones [Marianne and the child] I overthrew for an education in the world” (i versi di Days of Kindness che chiudono il film). E soprattutto per la possibilità di trasformare l’intensità caotica di una vita senza (apparenti) vincoli e segnata da scambi di corpi e parole, alcol e droghe, in ispirazione artistica. Marianne sarà la Musa nordica che, emergendo da un paesaggio meridiano, ispira l’Artista che nutrirà la sua arte di amore, caos, bellezza e natura.
Se restassimo qui, rimarremmo alla riproposizione di un mito romantico in fondo scontato, ma il film va oltre, come la poesia e la musica di Leonard Cohen vanno oltre. Cohen distrugge la sua musa, va a New York, il successo gli arride come cantautore, con una canzone epocale come “Suzanne”, la cui scrittura lo impegna per diversi mesi. Cohen fugge, ma allo stesso tempo chiama Marianne. La chiama durante i concerti, la chiama per raggiungerlo a New York, ma nel chiamarla l’allontana, come testimoniano gli amici.
Della tradizione romantica Leonard Cohen eredita la forma più moderna e attuale, quella ironica. E l’ironia – come pensava Schlegel – è la “forma del paradosso”. Doppio movimento, di avvicinamento e di allontanamento, di prossimità e distanza, che riguarda tutta l’arte di Cohen, definendone la radicale contemporaneità. E lo vediamo già nella canzone che dedica alla sua musa, quando, ancora amandola, indica nel titolo stesso l’allontanamento, “So long, Marianne”. E il cui ritornello presenta in forma magnifica il tenersi insieme paradossale della prossimità (empatica) del pianto e della distanza (ironica) del riso: “It’s time that we began to laugh and cry and laugh about it all again”.
La forma ironica dissolve il tessuto realistico e ordinario del quotidiano, restituendolo in immagini erratiche ed episodiche, e trasfigurandolo su un piano mitico. Un altro grande canadese, Northrop Frye, ha sottolineato per la letteratura questo passaggio, parlando dell’estetica dei «momenti senza tempo», della pratica della giustapposizione «di immagini senza spiegare i loro rapporti», e di come tutto ciò porta al «ritorno dell’ironia al mito» (Frye 1998, pp. 82-83). Che può essere anche – e per Cohen spesso lo è – il religioso.
In “Suzanne” abbiamo il passaggio dalla prima strofa, contemplativa, dedicata alla donna, “Suzanne takes you down to her place near the river / You can hear the boats go by/ You can spend the night beside her”, alla seconda che inizia con: “Jesus was a sailor / When he walked upon the water”. Il processo di trasfigurazione mitica attraversa tutta l’arte di Cohen, e arriva ad album successivi, come The Future (1992), dove in Light as the Breeze il corpo nudo della donna si fa paesaggio da contemplare ed adorare (brezza e mare), così come il registro ironico emerge nel passaggio dalla terza alla prima persona (come sottolinea Christofer Lauer): “She stands before you naked / you can see it, you can taste it / and she comes to you light as the breeze”; e nella strofa successiva, chino davanti al pube femminile, il passaggio alla prima persona: “So I knelt there at the delta, / at the alpha and omega, / at the cradle of the river and the seas”.
Questo avanti ed indietro ironico che non permette mai di sposare un unico registro emotivo ed espressivo, in cui le idealizzazioni si trasformano in movimenti di dispersione ironica, e viceversa, accompagna anche tutto il film. Che parte e torna ad Hydra, costantemente idealizzata ma anche sistematicamente riconsegnata alla dispersione del corpo della comunità che l’ha abitata, che in una libertà senza vincoli sembrava trovarsi ma allo stesso tempo anche perdersi: il dolore e la sofferenza dei figli cresciuti in quella comunità (incluso quello di Marianne). È il movimento antinomico che fa dell’ironia il registro poetico capace di trasfigurare la sconfitta in vittoria (Beatiful Losers è uno dei due romanzi di Cohen), la crisi in opportunità artistica.
L’individualismo dell’artista ironico, che si distanzia dal sentire comune, trova compimento e sintesi solo nell’arte. È l’arte l’unico regno in cui la dimensione inconciliabile degli opposti si redime, il regno dove la profanità dei corpi e la sacralità delle menti si ritrovano. E così passiamo dall’immagine del corpo che si può toccare solo con la mente in Suzanne, “For you have touched her perfect body with your mind”, a quella di una fellatio in Chelsea Hotel (che racconta l’incontro con Janis Joplin): “Giving me head on the unmade bed”.
Quando l’ambivalenza del registro ironico si spezza, il linguaggio si orienta verso una più marcata direzione profetica, perfino apocalittica (Frye 1998, p. 83). È lo sparpagliamento del corpo di una comunità che non si ricompone né riesce ad essere trasfigurato dall’arte. Come nella canzone The Future, in cui la visione di un futuro apocalittico riguarda tutta l’umanità: “Give me absolute control / over every living soul / And lie beside me, baby, /that’s an order […] Give me back the Berlin Wall / give me Stalin and St Paul / I’ve seen the future, brother: it is murder”.
Questo che ci fa capire come il racconto apocalittico del tempo presente è un portato interno al modo ironico di racconto della vita, che ha contrassegnato tutto il Novecento. Dove l’umano, gettato in uno stato di dispersione radicale senza poter immaginare alcun “mondo verde”, riesce solo a pensare il ripristino del confine, del muro difensivo, del “Berlin Wall”. Il modo ironico individua un mondo ordinario, privato però della trascendenza del giudizio morale e di un orizzonte comune verso cui muoversi (come è tipico del commedico). È un mondo segnato dall’ambivalenza (“I prayed that you would love me / and that you would not love me”, dalla poesia You Do Not Have to Love Me) e dalla ciclicità del tempo, in cui il lasciarsi si converte in un prendersi, la fine in un nuovo inizio: “I tried to leave you, I don’t deny / I closed the book on us, at least a hundred times. / I’d wake up every morning by your side” (I tried to leave you).
È in Four Quartets di Eliot, ad apertura e chiusura del secondo Quartetto, “East Coker”, che troviamo i versi che magnificamente sintetizzano una visione ciclica ed ironica della vita “In my beginning is my end … In my end is my beginning”. È nel solco di questa tradizione ironica che l’arte di Leonard Cohen si colloca, è in questa direttrice che si definisce la sua radicale modernità, la sintonia coi tempi, l’aver intercettato l’interesse e la passione di molti fan appartenenti a generazioni diverse, e di essere stato anche amato da molti registi che lo hanno utilizzato come colonna sonora dei loro film: dall’Herzog di Fata Morgana (1971) all’Altman de I compari (1971), dall’Assayas de L’eau froide (1994) al Nanni Moretti di Caro Diario (1993) e Mia madre (2015).
Se la vita ha un movimento lineare di sviluppo e decrescita, l’arte nella sua fase ironica fa di questa linea un circolo, e del tempo un ritorno. È quello che Marianne & Leonard ci mostra. Dopo le immagini dell’ospedale dove Marianne muore ascoltando il messaggio di Leonard, vediamo nuovamente le immagini di Hydra, la barca, il mare. Ma nessuna nostalgia. Il ciclo ironico della vita viene salvato dall’arte, capace anche in questo caso di redimerla. Come accade anche nella ipnoticamente intensa e postuma Moving On (2019), in cui Cohen si rivolge ancora a Marianne: “I loved your face I loved your hair / Your t-shirts and your evening-wear / As for the world the job the war / I ditched them all to love you more”.
https://www.youtube.com/watch?v=jghZPW0nsB0
Riferimenti bibliografici
L. Cohen, Beautiful Losers, Viking, Toronto 1966.
N. Frye, Anatomia della critica, Einaudi, Torino 1998.
C. Lauer, Irony as Seduction, in Jason Holt, a cura di, Leonard Cohen and philosophy. Various Positions, Open Court, Chicago 2014.
Marianne & Leonard – Parole d’amore (Marianne & Leonard: Words of Love). Regia: Nick Broomfield; fotografia: Barney Broomfield; montaggio: Barney Broomfield; musiche: Nick Laird-Clowes; interpreti: Leonard Cohen, Nick Broomfield; produzione: British Broadcasting Corporation, Kew Media Group; distribuzione: Nexo Digital; origine: USA; anno: 2020.