“Il ragazzo che amava Michelangelo”: così Patti Smith, sua musa e amante, chiamava Robert Mapplethorpe, tra i più eclatanti fotografi del Novecento, morto di Aids trent’anni fa, poco più che quarantenne. Ed è evidente come la “retorica” possente, carnale e insieme spirituale, dei corpi michelangioleschi faccia parte delle suggestioni visive del grande fotografo, così come anche il suo omoerotismo estremizzato ed esposto. E nelle sue foto c’è anche quel medesimo “esporsi” voluttuoso e martirizzante nell’incontro tra la luce, il volto, le muscolature, le nervature dinamiche che appare nei corpi di un altro Michelangelo: Caravaggio.
Il lavoro di “emersione”, sul supporto fotografico, della tensione interna, della sua fuoriuscita tra dolore e piacere, che percorre come un tremito la carne, ha a che fare dunque con un retaggio antico, classico, ellenistico e in questa luce va rivisto il suo itinerario bruciante e intenso, spogliandolo di tutti gli orpelli che attorniano la sua mitologia: il sadomasochismo, le partouze della New York gay e lussuriosa degli anni ‘80, lo snobismo provocatorio e decadente della perdizione e della perversione. Tutte componenti che in un certo modo “mascherano”, e ottundono, la potente evidenza del suo lavoro sulla tensione tra la forma e la forza, tra l’anima e la carne. E ciò si coglie nella corrente mistica (con i suoi richiami alla crucialità del martirio cristico, all’épopte misterica di rituali sacrificali) che scorre nelle vene di luce bianconera di cui il suo sguardo investe i corpi, perlopiù giovani, elastici, atletici, plastici e pervasi da una bellezza prorompente e accecante, terribile e inquietante; ma che si ripercuote anche nei solchi, nelle rughe, nel “rovinare” e nel “piegarsi” di corpi che travalicano le età e che spingono il “bello terribile” in zone dove mentre la carne si addensa, si modella, si tende, al contempo precipita in uno sfacelo entro cui il delirio sacrificale, compenetrazione estrema dell’eros, viene sospeso come un attimo eterno di bellezza insopportabile.
Il retaggio di una corrente classica, divisa tra apollineo e dionisiaco (messo in evidenza già da Germano Celant nel 1992, in dialettica con Rodin), tra danza, fotografia e scultura, risalta nel suo movimento dalla bellissima mostra curata per il Madre di Napoli da Laura Valente e Andrea Villani, il cui titolo Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra ne riassume l’originalità, dal momento che il percorso-retrospettiva da un lato si muove su un’anacronia delle immagini (come direbbe Didi-Huberman) giustapponendo reperti classici o neoclassici, (torsi e sculture grecoromane, dipinti barocchi, provenienti dal Museo Archeologico, e dalle Regge di Capodimonte e di Caserta), e, dall’altro, su una idea warburghiana di Nachleben , di “reviviscenza”, che sottopone a una prova di resa vivente le suggestioni dei corpi del passato in un attualismo di corpi danzanti.
Lungo il percorso della mostra si attivano infatti una serie di coreografie, di azioni danzanti “site-specific” incastonate negli spazi, già pensati come una interazione tra “astanti” e “celebranti”, facendo riemergere cifre rituali, atmosfere cerimoniali, come nelle azioni dei misteri antichi. Che tutto ciò sia contenuto, in un cortocircuito tra antico e presente, nel lavoro di Mapplethorpe, risulta evidente anche dalla particolare sintonia di questo artista con il territorio archetipale, con le aure misteriche dei luoghi (dalla grotta della Sibilla di Cuma a Pompei ed Ercolano) che fanno di Napoli una città potentemente “reviviscente” quante altre mai. La scoperta come fonte ispirativa di questo sostrato arcaico, Mapplethorpe la deve all’incontro negli anni ‘80 con un gallerista, mitico e indimenticabile, come Lucio Amelio. Il quale (così come fece per altri grandi artisti del XX secolo come Beuys, Twombly, Warhol) non si limitava ad ospitare e promuovere mostre, ma intratteneva con gli artisti un rapporto creativo, sempre in vibrazione con le aure napoletane, con i solchi e i venti metastorici che la città porosa ispira e fa erompere nel lavoro artistico e nelle sensibilità di chi la incontra. Lo si evince ad esempio da due ritratti fotografici di Amelio, il primo, Tunnel (1983) dove il profilo del gallerista, come intagliato nella pietra e amalgamato nel tufo, risalta sulle antiche rughe petrose di Cuma e dell’antro della Sibilla, il secondo dove Amelio veste i panni arcani di un manto streghesco che lo fa apparire come una antica “ianara”.
Del resto, lo stesso autoritratto (1988) di Mapplethorpe, – dove dal nero fondo emergono il volto faunesco, dagli occhi sbarrati e penetranti e dalle orecchie appuntite, e la mano che impugna un bastone dal pomello a forma di teschio, che ha tutta l’aria di essere un magico “segno del comando” – sembra essere l’assimilazione e la rivelazione con un antico sacerdote egizio (c’è tutta una tradizione “ermetica” nel territorio napoletano che tiene in vita fin nei secoli dell’Illuminismo e nella prima modernità, l’antica presenza del sacerdozio egizio in età ellenistica a Napoli).
L’evocazione dei corpi di antichi dei, di satiri e di giovani adolescenti dionisiaci era stata già compiuta da fotografi (alla cui conoscenza Mapplethorpe fu iniziato da Amelio) come Von Gloeden, Galdi, Pluschow, a cavallo tra Ottocento e Novecento, che avevano trovato a Napoli, a Capri, sulla scogliera sorrentina e amalfitana, le “reincarnazioni” di quella “terribile bellezza” adolescenziale cui (come diceva Wilde) avevano “guardato negli occhi” arrischiandosi, così come farà Mapplethorpe, sul limitare tra vita e morte, tra visibile e invisibile, tra piacere e dolore, tra l’abisso dei volti e la bellezza “velata” delle membra, delle muscolature, dei tendini, delle pose. In questo senso si ritrova l’uso di veli, bende e garze nel lavoro del grande fotografo statunitense (che richiama il misterico bacio velato di Magritte) e che viene “messo in movimento” dal coreografo Vadim Stein, in una restituzione dal vivo di quella grazia fluttuante (The Floating Grace), che a sua volta fa venire in mente le performance di danza “serpentina” (che furono filmate dai Lumière) di Loie Fuller.
Così, le foto di danzatori, coi quali Mapplethorpe intrattiene rapporti stretti (da Bill T. Jones a Lucinda Childs, Gregory Hines, Melissa Fenley), e per i quali i suoi set somigliano a consessi carnali, trovano eco incarnata nelle performance che punteggiano la mostra napoletana, di coreografi come Matteo Levaggi, Olivier Dubois, Luna Cenere. Del resto lo stato fluttuante e il mistero della grazia del corpo al limite tra anima e carne, attiene a un mistero “ninfico” che cerca di “incarnare” l’anima e il suo movimento. Ora il dispositivo fotografico può essere assimilato a un potere incarnativo (cui attiene la ritrosia dei popoli “selvaggi” ad essere fotografati, il loro sottrarsi all’immagine riprodotta come se questa potesse cavare loro l’anima) secondo cui l’anima evanescente, l’aura del soggetto, tende alla tattilità impossibile della carne. Da qui le linee di forza e di tensione dinamica del fotografare di Mapplethorpe, che si pongono sul piano intensivo in cui l’impossibilità-possibilità della perfezione e della bellezza scaturisce nel suo intercalarsi con l’ossessione/possessione del bello estatico e dionisiaco.
Il grande fotografo americano ripeteva spesso di essere ossessionato dall’inattingibilità della perfezione e della bellezza. La dimensione della forma nella sua assolutezza si “mescida” in Mapplethorpe con una tensione continua, ad animare le forme perfette trascinandole costantemente nell’imperfezione fluida della vita e delle sue efflorescenze, per cui è la carne a estrarre l’anima da se stessa (lo si vede nella serie dei “fiori” in cui la sessualità e la carnalità si espongono e si schiudono dalle forme astratte del fiorire e dello sbocciare). Questo processo di incarnazione si traspone nelle sue fotografie in una messinscena attiva, che ha molto a che fare con il set cinematografico, con il processo di incorporazione e interpretazione, in una atmosfera attiva, di un pathos del movimento. Scrive Claudio Marra:
Oltre all’intreccio con una dimensione effettiva di vita, l’essere costantemente partecipe e non spettatore dell’opera si estende, in Mapplethorpe, anche all’accattivante dimensione dell’immaginario, tanto che in altri autoritratti, eseguiti tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, lo troviamo cinematograficamente calato negli stereotipati panni del teppista metropolitano, con tanto di coltello a serramanico tra le mani, oppure in quelli di un cupo terrorista ripreso davanti a una stella a cinque punte mentre imbraccia un improbabile mitra a tamburo. (Marra 2012, p. 229).
Accade con le foto di Mapplethorpe un evento sorprendente: l’incarnarsi qui ed ora di una linea tensiva che mentre reclama una messinscena, si riversa nell’attimo dello scatto come una apparizione attuale e vivente, una incarnazione appunto, di una forma funzionale e di una bellezza sovratemporale che somiglia al terribile e dolce manifestarsi dentro il tempo di angeli, di dèi, di sopravvivenze pagane, di epifanie mistiche, di corpi reviviscenti. Il tutto vissuto, sofferto e goduto nell’atto creativo.
Riferimenti bibliografici
G. Celant, a cura di, Mapplethorpe versus Rodin, Electa, Milano 1992.
G. Didi-Huberman, Ninfa fluida, Gallimard, Paris 2015.
C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Bruno Mondadori, Milano 2012.