Fin dal titolo il film di Gia Coppola dichiara il proprio perimetro d’azione (e riflessione): le forme che assume la cultura popolare di massa nell’epoca dell’iperconessione della rete e dell’iperproduzione di immagini. Il tema non è certamente nuovo. Il cinema recente, sempre più spesso, prova a scomporre e ricomporre le prassi legate ai nuovi media. Ma ampliando l’orizzonte possiamo dire che il film si colloca pienamente, e anche un po’ troppo didascalicamente, nell’ambito di quella riflessione, che ci portiamo in eredità dal Novecento, sul rapporto tra sistema socio-economico e arte.

Il film, infatti, comincia proprio così. Frankie, malinconica ventenne di Los Angeles, aspira a vivere della propria arte, mentre si mantiene lavorando in un bar un po’ squallido dove di esibiscono comici mediocri. Un giorno vede Link, un ragazzo eccentrico che, travestito da topo, propone assaggi di formaggio ai passanti. Frankie lo inquadra con il proprio smartphone e comincia a filmarlo, dietro di lui un quadro di Kandkisky. Link se ne accorge, i due hanno uno scambio in cui lei riflette sull’incuranza dei passanti per l’opera del pittore. E allora Link in modo inatteso e totalmente fuori dalle righe comincia a fermare i passanti, interrogandoli sul valore che l’arte ha nella loro vita, denunciando i paradossi del consumismo, al grido di «Eat the art!». Frankie lo filma, carica il video sul YouTube e ottiene migliaia di visualizzazioni e commenti. Il paradosso è servito.

Da qui in poi l’evoluzione del racconto è prevedibile: Link acquista notorietà online, viene realizzato un suo programma YouTube, prodotto da Frankie, diventa No-One-Special, un personaggio controverso ed estremo, polarizzante. La strada del successo e dei soldi sembra spianata, fino a quando toccherà un punto di non ritorno, in cui tutto il castello di celebrità a forza di reazioni e visualizzazioni sembra destinato a crollare rovinosamente. 

L’elemento di originalità del film di Gia Coppola è quello di riuscire a mostrare visivamente il rapporto strettissimo che c’è tra le forme di industrializzazione dell’immagine e della creatività– oggi rappresentate dall’uso su scala globale dei social media e delle prassi dell’immagine ad essi collegate – e la capacità di esercitare liberamente il proprio giudizio, di aprire uno spazio di riflessione e condivisione reale. Tale rapporto è il risultato dell’incrocio di due dimensioni della nostra esistenza: quella estetica e quella etica.

Mainstream lavora molto sulla dimensione estetica della contemporaneità, cioè sulla specifica forma che l’immagine prende nel momento in cui viene prodotta, riprodotta e post-prodotta dagli utenti a partire dagli strumenti che le varie App ci mettono a disposizione, evidenziando il rapporto di essenziale reciprocità che si instaura tra la parola e l’immagine. Così, in un raccordo ideale che va dal cinema delle origini ai feed dei social network, il film tiene insieme i cartelli del cinema muto (all’inizio, quando Frankie ancora aspira alla purezza dell’arte) con le emoticon dei social network e quello stile grafico tra il pop e il trash dei video YouTube oggi così comune. È un’esplosione confusa di immagini, colori, parole, che nella sua forma tutt’altro che definita riesce a restituire qualcosa in cui siamo sempre, ormai, immersi e che acquista una nuova visibilità sul grande schermo.

Questa nuova dimensione estetica, però, ci pone continuamente delle domande e dei dubbi di natura etica, soprattuto quando incontriamo forme radicali di prolungamento della propria persona attraverso la rete o quando si crea un cortocircuito pericoloso tra esposizione e processo di creazione del sé. Tutto ciò si traduce narrativamente nell’epilogo del film, quando salta ogni confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e Link spinge una ragazza al suicidio.

Ma proprio su queste terreno il film mostra anche il suo limite maggiore, perché non riesce a far altro che riproporre questi dubbi etici del nostro contemporaneo, mimando quella forma istintiva e polarizzante del discorso pubblico (pro o contro la tecnologia), assumendo la provocazione e la denuncia cieca e incoerente, a cui dà voce proprio il personaggio borderline di Link, come l’unica strada percorribile. In altre parole non riesce a far altro che esasperare un dubbio dentro cui necessariamente stiamo e rispetto al quale non sembra esserci prospettiva: c’è un altro modo di vivere dentro la sfera mediatizzata che non sia quello di alimentarne le dinamiche anestetizzanti fino a rimanerne schiacciati?

Forse la risposta a questa domanda andava cercata proprio creativamente in quell’esplorazione dell’immagine contemporanea, dei suoi formati e dei suoi stili, che alla fine rischia di rivelarsi vuota, nient’altro che un mero esercizio di stile. 

Mainstream. Regia: Gia Coppola; interpreti: Andrew Garfield, Maya Hawke, Nat Wolff, Jason Schwartzman, Alexa Demie, Johnny Knoxville; produzione: Automatik (Fred Berger) American Zoetrope (Michael Musante, Gia Coppola), Artemis (Siena Oberman), Assemble (Jack Heller), Tugawood (Enrico Saraiva, Francisco Rebelo de Andrade, Alan Terpins), Andrew Garfield, Zac Weinstein; origine: USA.

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