“Non passa un giorno senza che io pensi al film Il mago di Oz”: nasce idealmente da questa dichiarazione di David Lynch, resa durante il Q&A di una proiezione di Mulholland Drive al New York Film Festival nel 2001, il film di Alexandre O. Philippe, Lynch/Oz, che attraverso le riflessioni di una critica, Amy Nicholson, e di sei registi, John Waters, Rodney Asher, Karyn Kusama, David Lowery e la coppia Justin Benson e Aaron Moorhead (nel film contano uno), indaga la relazione tra due maghi, o forse stregoni, certamente due uomini di spettacolo, e tra una filmografia che ha ormai mezzo secolo e un singolo film uscito nel 1939, dopo una lunga, tormentata ma paradigmatica (rispetto alla logica dello studio system) lavorazione.

La forma del documentario è essenzialmente videosaggistica, e la presenza nel cast di Rodney Asher rimanda al precedente di Room 237 (2012), dal quale questa ennesima incursione nella storia della cultura cinematografica di Philippe (dopo Star Wars e Psycho) trae più di un’idea. In sei capitoli dai titoli inevitabilmente lynchiani – Vento, Membrane, Affini, Moltitudini, Judy, Scavare – le voci fuori campo provano a capire in che modo (con quale significato e sintomatologia) Il mago di Oz è piantato nel cinema, nell’immaginario e, ancora prima, nello sguardo di Lynch, che il film deve averlo visto per la prima volta da bambino, a tre o quattro anni, e poi rivisto più e più volte, in televisione e al cinema (dove ha continuato a uscire in occasione delle festività natalizie). Nel documentario, molto americano, lo si dà per scontato, e solo John Waters (il cui segmento vale il film), vi fa un rapido cenno: per un bambino nato nel 1946 (i due registi sono coetanei), Il mago di Oz non è un film tra gli altri (come non lo è l’universo letterario creato da Frank Baum rispetto alla letteratura per ragazzi), ma un’esperienza destinata, potenzialmente, a segnare il destino del suo giovane spettatore (a portarlo, esattamente come accade a Dorothy, da un’altra parte, e magari a lasciarcelo).

Affini, il titolo del capitolo di Waters, rimanda proprio a questo (oltre al fatto che anche per il regista di Female Trouble il film di Fleming ha rappresentato un’inesauribile fonte di prelievi e riscritture, a partire da un esperimento del 1968, mai concluso, dal titolo Dorothy la fattona di Kansas City): David Lynch, come Waters, è rimasto quasi certamente folgorato dalla visione di un film che conteneva al suo interno tutti i generi – dal musical all’horror –, che era eccessivo, seducente, perfetto; come per Waters, anche per Lynch Oz è stato probabilmente il film che gli ha fatto desiderare di entrare nel mondo dello spettacolo – creare personaggi, vivere avventure, andare da un’altra parte.

Probabilmente, ma con una differenza essenziale: che se Waters ha scelto, come rivela la sua filmografia, di trasferirsi stabilmente a Oz (arrivandoci in mongolfiera o grazie a una canna), Lynch ha scelto invece di sistemarsi in quel punto, fuori da un tempo e da uno spazio unici e inequivocabili (né da una parte, né dall’altra), traumatico e fumoso, in cui dal Kansas si passa a Oz e viceversa (e il Kansas diventa un po’ Oz, e viceversa, senza possibilità di separazione, senza “/”). Il che significa, come suggerisce, per esempio, Mulholland Drive (commentato con acutezza da Karyn Kusama), mettere non solo fuori gioco il meccanismo facile, a porte girevoli e divertenti, sogno/realtà, ma anche trasferire la favola (opportunamente annerita) nella realtà, piantandola di fronte agli occhi e in mezzo alle vite dei personaggi, come accade in Cuore Selvaggio (ben al di là del gioco citazionista).

Da Il mago di Oz – che, vale la pena ricordarlo, è uno straordinario film sul cinema e sul potere delle immagini di dare o ridare la vita e la morte – il piccolo Lynch impara senza dubbio la prima regola di ogni gioco di invenzione narrativa: uscire dal mondo ordinario, entrare in un mondo straordinario. Restando però particolarmente colpito dal fatto – troppo poco sottolineato – che quell’ingresso, nel film di Fleming, è anticipato da un evento traumatico, si compie grazie a una botta in testa, produce la morte di una persona (la Strega dell’Est; Dorothy ucciderà anche quella dell’Ovest…).

L’analisi del tanto nero che circola al di sotto della patina Technicolor del film di Fleming è uno degli aspetti più interessanti di Lynch/Oz; prevedibilmente, infatti, il gioco comparativo porta anche a rileggere Oz alla luce del lavoro che su di esso – da molti punti di vista diversi – ha fatto Lynch. Del resto, egli ha non solo omaggiato e saccheggiato ma anche volutamente sabotato Il mago di Oz: sabotaggio che gli è servito, tra le altre cose, per disinnescare l’idea facile, “per bambini”, che una volta entrati in un altro mondo si possa davvero tornare a casa, o tornare a casa ritrovando, intatto e consolatorio, ciò che si è lasciato. Quell’esperienza – vedi la terza stagione di Twin Peaks, ampiamente citata dai “narratori” di Lynch/Oz –, come minimo, lascia dietro di sé un’ombra o una dissolvenza (incrociata); nel migliore/peggiore dei casi, un doppio.

Il film di Alexandre Philippe ha il merito di generare interessanti cortocircuiti non soltanto tra una filmografia e un film, e tra un mago e un altro, ma anche tra due idee di cinema, tra due modelli di cinema americano, tra due visioni del rapporto tra cinema, spettatori, società. E questo, con buona pace delle tante, a volte troppe parole dei commentatori – in alcuni casi fin troppo in libertà, come nell’ultimo capitolo di David Lowery, il regista del sopravvalutato Storia di un fantasma (2017) –, avviene soprattutto grazie al gioco dialettico, associativo e comparativo tra le immagini: è lì, alle spalle e a dispetto delle parole, che quel segno, “/”, giustamente inclinato, ha modo di funzionare a pieno regime, in un modo che sarebbe del tutto superfluo, se non impossibile, ricondurre al linguaggio. Logica, e mistero, delle immagini. Di come le une entrano nelle altre, e vivono nuove, imprevedibili vite. Lynch ne sa qualcosa, anche grazie a Il mago di Oz.

Lynch/Oz. Regia: Alexandre O. Philippe; sceneggiatura: Alexandre O. Philippe; fotografia: Robert Muratore; montaggio: David Lawrence; musiche: Aaron Lawrence; cast: Amy Nicholson, Rodney Ascher, John Waters, Karyn Kusama, Justin Benson, Aaron Moorhead. David Lowery; produzione: Exhibit A Pictures; distribuzione: Wanted; origine: Stati Uniti d’America; durata: 108’; anno: 2022.

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