Forse non esiste in tutta l’opera lynchiana una fucina più ampia di figure astratte, di simulacri dalle sembianze umane o di esseri sospesi tra l’umano e l’inumano come nelle tre stagioni di Twin Peaks. Solo nelle prime due si contano 94 personaggi con un ruolo definito, ognuno dei quali dotato di una propria autonomia e specificità. E la terza non è da meno, ovvio.
Ma la terza stagione di TP si rivela subito non una semplice operazione nostalgica, un modo per cavalcare l’onda della serialità contemporanea riesumando uno dei primi titoli della nuova golden age degli anni Novanta, ma qualcosa di più, un ritorno alla forma stessa della serialità, ma ripensata dal punto di vista di Lynch, che fa del cinema il perno critico, il luogo di messa in questione di ogni immagine possibile.
Perché la serialità, allora? Quali potenzialità apre TP nell’arco delle tre stagioni realizzate in 25 anni dal regista americano? TP ci interessa per la sua capacità di proliferazione di storie e personaggi, per la sua potenzialmente infinita durata e dislocazione temporale, come invenzione e disseminazione aperta. È proprio alla fine della seconda stagione che Lynch dichiara, in una intervista a “Positif”, che la televisione equivale ad un teleobiettivo, mentre il cinema ad un grandangolo: “Al cinema si può mettere in scena una sinfonia, mentre in televisione ci si deve limitare a un cigolio. Unico vantaggio: il cigolio può essere continuo” (M. Henry, Le ruban de Moebius. Entretien avec David Lynch, in “Positif”, n. 431).
Un cigolio continuo. Temporalità e movimento, suono ossessivo e ripetuto. Alla fine delle quasi 18 ore della terza stagione, il cigolio si è rovesciato, trasformato in qualcosa d’altro. Scegliendo una pratica realizzativa diversa dalle due stagioni degli anni Novanta – in cui solo alcuni episodi erano scritti e diretti dall’autore – nella terza stagione Lynch scrive (con Frost) e dirige ogni episodio, componendo un enorme racconto polifonico, o meglio, costruendo un dispositivo mobile di creazione di storie, potenzialmente infinito. Si potrebbe affermare allora che siamo all’interno della logica seriale, fondamentalmente basata sulla narrazione e le sue diramazioni. Ma qualcosa sfugge a questa lettura.
Di fatto Lynch sovverte cinematograficamente la struttura seriale, cioè ristabilisce la potenza del cinema all’interno delle forme strutturali della serie tv (ormai non più neanche solo televisiva). Lo aveva già fatto in Rabbits (2002), sorta di immersione acido-lisergica nel mondo delle situation comedy; lo aveva sperimentato in Duran Duran (2011), rileggendo il format di un documentario sullo show della band inglese come una sorta di visione in soggettiva, surreale e spettrale, di un concerto pop.
Rovesciare dall’interno attraverso uno sguardo che rimane cinematografico – che fa cioè dell’immagine e non della struttura narrativa il suo centro. È ciò che fa di TP (nella sua interezza) un punto di arrivo o di nuova partenza, delle immagini e della loro storia. O forse, semplicemente, rilancia con forza un’idea di cinema come sguardo, percezione alterata del mondo.
C’è un’immagine, o meglio un corpo-personaggio, che più di altri rappresenta questa idea. Ed è quella (molteplice e disseminata) di Dale Cooper/Kyle MacLachlan. Nel suo famoso saggio su Lynch, Michel Chion affronta la sfida di raggruppare in tre categorie il complesso universo dei personaggi del serial. Alla prima categoria appartengono i personaggi tipizzati, fedeli ad un certo ruolo e più o meno costanti nei comportamenti e negli atteggiamenti. Alla seconda categoria appartengono quei personaggi che possiedono delle caratteristiche bizzarre, al limite del feticismo o della follia, ma che sono parte integrante della comunità umana di Twin Peaks.
Alla terza categoria, continua Chion, appartengono i personaggi che sin da subito, o nel corso della serie acquistano una qualità mitica: vengono da dimensioni parallele, appaiono e scompaiono come fantasmi, spettri onirici, creano spazi di comunicazione tra mondi. Cooper, conclude Chion, comincia nella seconda categoria per poi approdare alla terza.
Ma c’è qualcosa che fa di Cooper (e del suo corpo attoriale) un personaggio a sé, un movimento a sé, dello sguardo e del pensiero. La prima volta che vediamo l’agente dell’FBI (nell’episodio pilota), Cooper sta guidando verso la cittadina di Twin Peaks, il corpo di Laura Palmer è stato scoperto e alcuni dei personaggi hanno già fatto la loro prima apparizione. Cooper sta dettando ad un registratore tascabile – che apostrofa con il nome di Diane – le tappe del suo viaggio: il nome del ristorante dove ha fatto colazione, le miglia percorse, ecc.; tutto sembra alludere ad una metodologia di indagine meticolosa e totalmente razionale, basata sulla pignola raccolta di indizi e piccoli dettagli. Improvvisamente, sempre rivolto a Diane, Cooper inizia a fare dei commenti sugli alberi incontrati lungo la strada, ripromettendosi di chiedere a qualcuno il nome di quelle piante meravigliose. Il pensiero ha subito uno scarto. All’improvviso, cioè, la catena di elementi chiusi e connessi all’interno del ragionamento lasciano lo spazio ad una divagazione, ad un detour del pensiero, primo avvento di un modo di essere nel mondo di percepirlo e percepirsi che costituirà la caratteristica principale dell’agente Cooper: l’agente dell’FBI è caratterizzato come un uomo che “divaga”.
Fin qui tutto farebbe pensare ad uno dei tanti comportamenti stravaganti che in fondo abbondano nelle caratterizzazioni dei grandi detective (la passione per la catalogazione meticolosa di oggetti apparentemente inutili in Sherlock Holmes, la passione per i fiori e il cibo di Nero Wolfe, l’assoluta fiducia nella fisiognomica di Miss Marple, e così via); ma, come giustamente afferma Chion, Cooper non appartiene pienamente alla seconda categoria di personaggi, quella che raggruppa figure bizzarre ai limiti della follia.
Già nella terza puntata della prima serie, Cooper riunisce alcuni dei personaggi per illustrare loro un metodo d’indagine particolare, che consiste nel gettare un sassolino verso una bottiglia ogni volta che si pronuncia un nome che potrebbe essere legato al caso oggetto d’indagine. Quando il sasso colpisce la bottiglia, il nome pronunciato diventa importante per il caso. Il “metodo tibetano” di indagine (o come lo chiama l’agente: “The Rock-Throwing Technique”) differenzia Cooper da ogni altro detective della letteratura poliziesca classica. Il principio di indagine si basa sulla coincidenza, sulla coesistenza di due eventi che – senza connessione logica – creano tra loro un legame. La coincidenza è qui sottolineata non in quanto apertura verso una connessione logica ma in quanto possibilità di orientare lo sguardo in modo differente, di percepire, di sentire il mondo in maniera altra rispetto al normale. Cooper propone in fondo una diversa metodologia di conoscenza, di percezione della complessità del reale. Un problema ontologico prima ancora che epistemologico.
È questa particolarità dello sguardo che permette infatti a Cooper non tanto di passare – come dice Chion – dalla seconda alla terza categoria di personaggi, quanto di attraversare tutte le dimensioni del reale che in Twin Peaks danno sfoggio di sé.
Il movimento di Dale Cooper è precisamente la connessione tra gli spazi e i corpi che costituiscono la possibilità ontologica del cinema, sospeso tra materia e spettralità. Il movimento di Cooper è di fatto il movimento di uno sguardo che altro non è se non lo sguardo registico, come ricorda Lynch: «È vero, io sono come un detective che fa la posta alle cose che abitualmente si nascondono».
Ecco perché il sottotitolo “Il ritorno”, dato dai produttori alla terza stagione della serie, suona in fondo beffardo. La terza stagione, più che un ritorno è un compimento e un rovesciamento che si rivela. Cosa rende impossibile un ritorno? Sicuramente il pensarlo come ritorno assoluto, come ripresentazione dell’identico. L’eterno ritorno dell’identico non è da prendere alla lettera: Nietzsche lo sapeva bene, così come ne sono perfettamente consapevoli gli autori e soprattutto i distruttori di ogni architettura seriale – da J.J. Abrams a Joss Whedon – coloro che, proprio sviluppando serialità, creando processioni e teorie di narrazioni e personaggi, non fanno altro che negare la possibilità del ritorno. Sono operazioni che mettono in gioco e che permettono una nuova teoria e critica della serialità, certo. Ma proprio per questo sembrano andare in una direzione diversa dall’orizzonte che Lynch, con le tre stagioni di Twin Peaks, ha delineato.
Certo, tutto sembra ripetersi: la proliferazione di personaggi, lo sdoppiamento (Bad Cooper e Good Cooper), le dimensioni parallele, i portali e le zone intermedie come la Black Lodge, il suono come immagine sempre più concreta, la temporalità dei gesti e delle attese, la sospensione delle inquadrature; l’indagine poliziesca come puro pretesto per il viaggio sensoriale e di addestramento alla percezione alterata; gli incespicamenti del linguaggio, le ripetizioni e i problemi di comunicazione tra i personaggi, le deformazioni elettroniche, i tanti mondi lynchiani: dagli esseri magici che compaiono agli angoli della casa ai luoghi-portale come il Club Silencio di Mulholland Drive che compare nella puntata 8…
Tutto si ripete allora? Sì e no. Certo, come nelle due prime stagioni, TP diventa la matrice di una forma di cinema. Ma ora lo scarto si è realizzato. Ciò che era accaduto nell’ultima puntata della seconda stagione – Dale Cooper posseduto dallo spirito dei boschi Bob – mostra le sue conseguenze nella terza stagione. Appunto un doppio Cooper, Bad and Good, il villain e l’idiot. Dougie Jones diventa la forma corporea di un Dale Cooper che ormai è solo traccia (e sta cercando faticosamente di tornare) di ciò che era. Il suo sguardo al tempo stesso attento e distratto, detour rispetto al mondo, costringe il mondo stesso a guardarlo, osservarlo, aspettare una sua reazione.
È soprattutto Dougie Jones a concentrare però l’attenzione dello sguardo. Se infatti Bad Cooper è l’estrema propaggine della razionalità scissa dalla morale – egli persegue uno scopo e nulla ha valore se non il perseguimento stesso – Dougie Jones è di fatto una sorta di versione infantile di Bartleby lo scrivano di Melville. Come il famoso personaggio letterario, copista che “ribalta la lingua degli altri”, Dougie comunica non comunicando e dunque interrompe il flusso comunicativo, costringendo chi gli sta intorno a dare un senso ai suoi silenzi o al suo linguaggio che ripete le ultime parole del suo interlocutore. La formula di Dougie Jones non è quella ripetitiva di Bartleby (“I prefer not to”), ma è un’altra variazione sul tema della ripetizione. È vero come dice Deleuze a proposito di Bartleby, che questa ripetizione senza senso (e che costringe gli altri, chi gli sta intorno a reagire, a cercare un senso nello stupore sempre più grande) forse costituisce una lingua straniera nella lingua.
Il Cooper scisso, doppio, alienato è dunque il motore di un’altra forma di cinema, quella che accetta ormai la deriva come forma nuova e radicale di scoperta del mondo. La deriva anzitutto delle immagini, come nella sequenza incredibile e stupefacente dell’episodio 8, quella dell’esplosione atomica in New Mexico nel 1945, allorquando l’immagine diventa puro movimento di forme indistinte, puro rapporto tra immagine e suono. Nella lunga sequenza (quasi cinque minuti), l’immagine perde ogni connessione narrativa. Quel filo sottile che continuava a biforcarsi lungo le sette puntate precedenti si scopre sospeso su un fondo indeterminabile, una realtà microscopica e potente, sostanza dei tanti mondi che vivono sotto la superficie. Sequenza degna di un film di Stan Brakhage, dettagli microscopici che possono rimandare a Kubrick o al cinema astratto, essa diventa uno dei momenti cardine della prima metà di TP3, uno dei momenti cioè in cui la scrittura (intesa come sceneggiatura) viene azzerata o meglio, completamente trasfigurata.
Nel proseguo del percorso, le figure di Kyle MacLachlan non cessano di trasformarsi, di biforcarsi, fino all’ultima trasformazione, all’ultima sequenza della stagione che di nuovo ci porta di fronte ad una catastrofe dell’immagine, ad un nero che irrompe e che blocca i personaggi, ad un grido fuori campo che ne interrompe il flusso.
La serialità si ritrasforma in cinema. Un cinema che fa della proliferazione, della deriva, dell’incespicamento, del balbettio dell’immagine, la possibilità stessa di nuove, meravigliose immagini.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, Macerata 2011.
M. Henry, Le ruban de Moebius. Entretien avec David Lynch, in “Positif”, n. 431 (1997), pp. 8-13.
M. Chion, David Lynch, Lindau, Torino 2000.